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 2012  novembre 08 Giovedì calendario

IL PAESE SURREALE

[De Carlo: “Basta con il narcisismo ora bisogna raccontare l’Italia”] –
Per i suoi imminenti sessant’anni si è regalato un romanzo di quasi mille pagine. Ambizioso. Sterminato. A suo modo definitivo. Perché se in sette giorni Dio creò il mondo, Andrea De Carlo lo distrugge. Lo annichilisce: prima a fuoco lento, poi abbandonandolo alla potenza minacciosa di un vulcano. Una furia crescente avvolge lo scrittore. Che ne è dell’eleganza un po’ sofisticata che conoscevamo? Di quei toni pre-baricchiani che hanno animato tanti suoi romanzi? Andrea De Carlo — per me il più americano dei nostri scrittori — scopre la forza indisciplinata della natura, e la difficoltà per il genere umano di adattarsi alla grande mutazione. Si intitola
Villa Metaphora, ma avrebbe potuto benissimo chiamarsi “Apocalisse Italia”, tanto il romanzo rivela gli umori bassi della politica di un paese e i tipi umani che lo abitano: oscillanti fra briatorismo e moralità d’accatto. Pronti a sbranarsi nell’imminenza della fine.
La storia si svolge nell’esclusivissimo resort ricavato in un punto inaccessibile di un isolotto del Mediterraneo (non distante da Lampedusa). Qui approdano alcuni personaggi del jet-set internazionale: la diva planetaria (con annessa amica) e l’arrogante marito, il potente finanziere tedesco (in procinto di essere travolto, grazie al web, da uno scandalo con una minorenne) e la moglie rassegnata, il politico italiano, degno rappresentante di una casta ormai screditata, un’anziana coppia (moderata e decente), una stizzosa giornalista francese in incognito, un restauratore falegname, un talentoso chef, e naturalmente l’architetto Gianluca Perusato (l’ideatore del resort), la sua amante Lucia e il di lei cugino Carmine. A un certo punto apparirà anche un gruppo di russi. Naturalmente molto ricchi e molto volgari.
Il romanzo è godibile. De Carlo fa dialogare con grande naturalezza i personaggi. Li descrive con scintillante perfidia. E anche le parti in cui inserisce una specie di “esperanto” mostrano l’efficacia di chi padroneggia gli effetti di una lingua in parte ricreata.
Perché ha usato due registri linguistici?
«A volte mi viene da pensare che l’italiano sia una lingua artificiale e che i nostri mondi nascano dai dialetti, o magari da un lessico arcaico che ci guida e ci fa interpretare meglio la nostra realtà. In ogni caso, l’uso di questo “esperanto” riguarda solo alcuni capitoli del romanzo».
Che ha nell’ampiezza uno sviluppo inconsueto. Non teme di scoraggiare il lettore?
«Sono consapevole del rischio. Ma mentre scrivevo ho avvertito il bisogno un po’ fluviale di far scorrere le storie, dando voce ai tanti personaggi che le compongono».
Tutti stipati in una piccolissima isola dalla quale, a un certo punto, nessuno potrà uscire o scappare.
«Da qualche anno giravo intorno all’idea di creare una struttura chiusa. Non così distante dall’archetipo letterario che da Boccaccio in poi narra di un gruppo di persone bloccato in un luogo da cui non può evadere».
A me veniva in mente L’angelo sterminatore di Luis Buñuel. Non ci sono più vie di fuga?
«Temo sia così. Siamo come tante mosche che si agitano sotto un bicchiere».
È forse la prima volta che lei prende così di petto la realtà. Cosa è cambiato?
«Le mie ultime storie erano molto più personali. Chiuse su me e sul mio mondo. Poi un giorno ho avvertito l’esigenza di dubitare meno della realtà esterna e mi è venuta voglia di raccontarla. Ho impiegato due anni per scrivere Villa Metaphora».
Metafora anche di un paese che è il nostro:
in grave declino, a un passo dal baratro.
«Beh, lo abbiamo sotto gli occhi. Tutto quello che ci sta accadendo è spaventoso. E nel provare a raccontarlo pensavo a certe commedie del cinema italiano».
Si avverte in effetti un tono farsesco, di satira sociale. Ma alla fine prevale il catastrofismo.
«La mia convinzione è che un ciclo storico si sia chiuso».
E a farne le spese non sono solo i poveri, ma anche i ricchi.
«La nostra società dello spettacolo, dice Houellebecq, è erotico commerciale. Molte persone normali, per lungo tempo, si sono identificate con i divi, i grandi finanzieri, il politico di grido. Poi, è accaduto qualcosa che ha incrinato fortemente l’immagine di questa élite. L’abbiamo scoperta nuda, infragilita, squallida».
La caduta degli dei.
«La perdita del privilegio. Sull’isola, improvvisamente, nessuno può più contare sulla rendita del proprio potere».
La parola passa alla natura e al caso: la terra trema, il vulcano si risveglia, la distruzione incombe. Un De Carlo, ripeto, catastrofista?
«Mi sembra che tutti i dati che oggi abbiamo a disposizione puntino in una direzione molto preoccupante. Mi è difficile immaginare un futuro roseo».
È la prima volta che lei racconta non il disagio di un individuo ma, in un certo senso, di un’intera civiltà. Ed è come se si sia modificata la sua visione estetica delle cose.
«Forse ciò che ho raccontato in Villa Metaphora è venuto fuori in modo parzialmente inconscio. Non lo so. So però che mettendo al centro della storia un gruppo di privilegiati — gente in teoria dotata di strumenti raffinati per comprendere la realtà — ho scoperto che quello che gli succede va al di là delle sue capacità di controllo».
Parlando di “visione estetica delle cose” intendevo anche un’altra cosa.
«Più personale?»
Appunto. Nei suoi precedenti romanzi era possibile stabilire una continuità tra lo stile del racconto e lo stile di vita. Si è parlato a volte della sua postura: i maglioni blu, l’aria divagante e appartata, una sorta di autocompiacimento nel sentirsi diverso.
«Quando scrive, un romanziere ha sempre la tentazione di guardarsi in uno specchio. Ma forse per la prima volta ho avuto la sensazione di un abbandono del sé, il desiderio di liberarmi della dimensione più narcisistica. Anche se di un narcisismo particolare».
Ossia?
«Ho spesso desiderato di non esserci, di tenermi fuori dalle relazioni con la società, con i colleghi, con il mondo della cultura in generale. Se qualcosa doveva parlare erano i miei libri».
Si potrebbe leggere come una forma di snobismo.
«Piuttosto vi scorgerei un senso di non appartenenza che ho sempre avuto fin da quando ero bambino. Più che di snobismo perciò parlerei di disagio».
Un disagio molto invidiato. Il successo dei suoi romanzi, fin dall’esordio con Treno di panna, e uno sponsor entusiasta come Italo Calvino. Poi le frequentazioni con Fellini e Antonioni. Tutto questo l’ha posta su un piano diverso rispetto ai suoi colleghi. Era percepito come un privilegiato.
«Fin dall’inizio ne sono stato consapevole. E se dal di fuori l’incontro con Calvino poteva essere visto come un privilegio, io l’ho vissuto da naïf: da persona che in realtà non aveva mai fatto prima parte di un contesto letterario e ha continuato a non farne parte dopo. Credo sia un tratto psicologico legato alla mia famiglia che era molto meno integrata di quanto poteva apparire dall’esterno. Composta da persone strane, con un disagio che hanno trasmesso a me e a mia sorella».
Perché disagio? In fondo suo padre è stato un grande architetto, sua madre una donna colta.
«Ma vede, mia madre era una donna intelligentissima, irrequieta, interessata alla letteratura e alla poesia, ma con un carattere tra lo spartano e il calvinista. C’era in lei l’idea che nessuna concessione andasse fatta a ciò che era comodo o piacevole. Era abitata da una strana virulenza antiborghese, che mi ha fatto crescere in una dimensione per cui non riuscivo a capire socialmente dove collocarmi».
Mi tolga una curiosità. Quanto c’è di suo padre nel protagonista del romanzo? Gianluca Perusato è un architetto di grande successo che dà vita all’impresa titanica di costruire un luogo per pochi privilegiati.
«Se una relazione esiste è del tutto involontaria. Perusato non potrebbe essere più diverso da mio padre, che non avrebbe mai costruito case o ville per una committenza privata. Ma certamente mi ha influenzato quello che di riflesso ho vissuto attraverso di lui. L’architetto è un creatore di mondi. E facilmente lo si può scambiare per un piccolo Dio. Di qui il suo autocompiacersi. Ma è un Dio che può fallire, come dimostra la storia che ho raccontato»