Sylvain Tesson, Rollingstone 30/10/2012 (n°109 Novembre), 30 ottobre 2012
TUTTO SOLO IN SIBERIA
[Parigi addio. Uno scrittore francese lascia gli amici, la compagna, la civiltà e passa sei mesi in una capanna sulla sponda del lago Bajkal. Li racconta in un diario, “Nelle foreste siberiane”, pubblicato in Italia da Sellerio. “RS”, sempre generoso, vi offre un estratto. Un’esperienza non solo bella da leggere, ma anche utile in tempi di crisi] –
15 FEBBRAIO
La prima serata da solo. All’inizio non ho quasi il coraggio di muovermi; sono anestetizzato dalla prospettiva dei giorni a venire. Alle dieci di sera, una serie di esplosioni squarcia il silenzio. L’aria è più calda, c’è un cielo da neve, la temperatura è salita a -12°. La capanna non vibrerebbe così nemmeno se l’artiglieria russa cannoneggiasse il lago. Esco nel’aria più mite per ascoltare quei colpi di maglio. Le correnti smuovono la banchisa.
L’acqua prigioniera implora la sua liberazione. Il ghiaccio divide le creature (pesci, fiori, alghe, mammiferi marini, artropodi e microrganismi) dal cielo. Si interpone come uno schermo tra la vita e le stelle. La capanna misura tre metri per tre. E’ riscaldata da una stufa di ghisa che diventerà la mia amica. Accetto il borbottio della nuova compagna. La stufa è l’asse del mondo: tutto si organizza intorno a lei. E una piccola divinità che vive di vita propria. Quando le presento la mia offerta - dei ceppi di legno - rendo omaggio all’Homo erectus che ha imparato a dominare il fuoco. Nella Psicoanalisi del fuoco Bachelard immagina che l’idea di sfregare due bastoncini per accendere l’esca sia stata suggerita dai toccamenti dell’amore. Nella copula, l’uomo avrebbe avuto l’intuizione del fuoco. Buono a sapersi. Per tenere a freno la libido, pensare a guardare la brace. Ho due finestre, una a sud e l’altra a est. La seconda inquadra le creste innevate della Buriazia, a cento chilometri di distanza. Dalla prima, attraverso i rami di un pino piegato verso terra, seguo con lo sguardo la linea della baia che si incurva a sud. Il mio tavolo, sotto la finestra a est, ne occupa tutta la larghezza, come si usa in Russia. Gli slavi possono stare seduti per ore a guardare i vetri appannati. Ogni tanto si alzano, invadono un paese, fanno una rivoluzione e poi tornano a fantasticare davanti a una finestra, in una stanza surriscaldata. D’inverno sorseggiano interminabilmente il loro tè e non hanno troppa fretta di uscire.
3 MARZO
(...) Come tutte le mattine, mentre la stufa si scalda, mi avvio verso il buco scavato a trenta metri dalla riva. Durante la notte la crosta di ghiaccio si è riformata e devo romperla per attingere acqua. Mi fermo un momento, in piedi, a guardare la taiga. A un tratto dall’apertura spunta una mano bianca (queste acque hanno ingoiato tanti annegati) e mi afferra la caviglia. L’allucinazione è folgorante; arretro lasciando cadere il punteruolo. Il cuore mi martella nel petto. Le acque ferme sono malefìche. I laghi esalano un’atmosfera malinconica perché gli spiriti si crogiolano nell’isolamento rimuginando la loro pena. I laghi sono cripte. Il fango diffonde intorno odori malsani, la vegetazione è una macchia di riflessi scuri. Al mare la risacca, i raggi ultravioletti e il sale dissolvono qualunque mistero e la luce trionfa. Che sarà accaduto in questa baia? Forse un naufragio o un regolamento di conti? Non ho intenzione di convivere sei mesi con un’anima in pena: ne ho abbastanza della mia. Torno al calore della capanna con i due secchi. Visto dalla finestra, il buco nel ghiaccio è una macchia nera sulla superficie livida: un passaggio pericoloso che mette in comunicazione due mondi.
Ogni pomeriggio mi metto ai piedi le racchette da neve. Un’ora e mezza di marcia nella foresta per raggiungerne il confine superiore.
Mi piace addentrarmi fra gli alberi. Oltre il limitare, i suoni si attenuano. Mi invade una calma assorta come quando mi inoltro sotto le volte di una cattedrale gotica, in Francia o in Belgio. E una dolcezza interna che grava sulle palpebre e diffonde il suo tepore dietro l’osso frontale. Qualcosa in me reagisce alle emanazioni della pietra calcarea come a quelle delle conifere. Alle navate di pietra, adesso preferisco i tronchi.
Sotto gli alberi la neve è alta. Il vento non la disperde mai. Affondo, malgrado le racchette. Linci, lupi, volpi e visoni si aggirano nell’oscurità. La cruenta tragedia è scritta nelle impronte; alcune sono imperlate di sangue. Quelle tracce sono le parole della foresta. Gli animali non affondano. La superficie d’appoggio della zampa è proporzionata al loro peso. L’uomo è troppo pesante per muoversi sulla neve. Di tanto in tanto il silenzio è rotto dal grido delle ghiandaie. Lo lanciano dall’alto di un abete, sentinelle piumate in cima a una torre di rami. Gridano perché invado il loro mondo. Nessuno chiede mai a un animale il permesso di attraversare il suo territorio. I licheni pendono dagli alberi. Molto tempo fa ho letto una storia: un dio vagava nel sottobosco, il suo mantello si impigliava nei rami degli alberi e i brandelli diventavano licheni. Quanta tristezza nei pini: sembra che abbiano sempre freddo. Dopo un’ascensione di un’ora, l’altimetro segna 750 metri. Ancora uno sforzo e, a 900 metri, la foresta si darà per vinta. Lassù la neve, piallata dalla tempesta, offre una superficie dura. Le racchette fanno presa, io procedo rapidamente e decido di risalire una delle strette vallate. Rari larici resistono oltre il limitare della foresta. Crescono isolati e i rami contorti spiccano sul fondo azzurro del lago percorso da un reticolo di crepe. L’oro dei rami, l’azzurro del lago, il bianco delle crepe del ghiaccio: la tavolozza di Hokusai.
Ogni tanto mi manca il terreno sotto i piedi: la neve accumulata su un gruppo di pini nani cede sotto il mio peso. Cado in una nassa fatta di rami e le racchette restano impigliate in quell’intrico. Impreco in fondo alla buca. (...)
A 1.000 metri di quota salgo verso le creste rocciose che fiancheggiano i thalweg. La dentellatura delle dorsali granitiche si staglia sul lago. Ho degli amici che vivono solo per questo: raggiungere le grandi altezze dove si respira aria gelida, vivere sospesi tra cielo e terra in un regno di forme astratte dove non ci sono odori. Quando scendono a valle, sentono il puzzo della vita. In città gli alpinisti sono infelici. Accendo un fuoco tra i blocchi di pietra che affiorano dalla neve e faccio bollire il tè. Il fuoco ed io fumiamo, l’uno accanto all’altro, offrendo le nostre volute di fumo al vecchio lago. Nei giorni che passo lassù, mi dedico alla pura felicità di esistere. Tirare boccate solo davanti al lago, non distruggere niente, non subire imposizioni da nessuno, non desiderare qualcosa di diverso da ciò che si sta provando e sapere che la natura non ci rifiuta. (...)
Siamo a -30°: troppo freddo per darsi alla contemplazione. Scelgo un canale per scendere scivolando, mi aggrappo ai getti dei frassini, ai rami dei cornioli. Sono di nuovo nella foresta di pini e di betulle, affondo nella neve addormentata, in un’ora arrivo al lago. Scelgo un promontorio a caso per orientarmi e raggiungo la riva non lontano dalla capanna. Quando la vedo, mi sento felice. Lei mi accoglie, sto tornando a casa. Chiudo la porta, accendo la stufa. A maggio voglio arrampicarmi fino al punto più alto del mio territorio.
8 MARZO
On the ice. Nel pomeriggio raggiungo la stazione meteorologica di Solnecnaja. Qui, al tempo dell’Unione Sovietica, su un pianoro disboscato sorgeva un grazioso villaggio. Oggi, in quel che ne rimane, vivono due persone: l’ispettore Anatoli e Lena, la sua ex moglie. Ultimamente si sono separati e abitano in due isbe vicine da cui si guardano in cagnesco, soli in capo al mondo. La stazione è difesa da un caotico ammasso di blocchi di ghiaccio. Busso alla porta di Anatoli. Nessuna risposta. Apro. La luce del sole entra a fiotti nella stanza. Scatolette vuote sul pavimento, cadaveri di bottiglie sotto il tavolo e un corpo sul divano. Dimenticavo che in Russia 1’8 marzo è la giornata della donna. Anatoli ha festeggiato la ricorrenza. Più tardi Lena mi racconterà che ha bussato tutta la notte alla sua porta gridando: «Apri!». Un gentiluomo non può mancare di festeggiare la giornata della donna. Lo sveglio. Puzza di formalina, di etere e di cavolo. Si alza e cade. Per darsi un contegno, dice: «Sono i reumatismi. Mi fanno soffrire». «Sì», rispondo io, «il tempo è umido». Anatoli vaga sull’argine per tutto il pomeriggio. Queste stazioni meteorologiche sono rampe di lancio verso l’ospedale psichiatrico. E dal tempo di Stalin che tutto il territorio, dalla Bielorussia alla Kamčatcka, ne è disseminato. Costruire stazioni era un modo per riempire il vuoto. Lo scopo era avere, all’interno dei confini, un certo numero di cittadini in grado di avvertire Mosca dell’arrivo dei fascisti o di un’eventuale ondata di contestazioni. Nelle isbe, tutte ugualmente attrezzate con strumenti di misurazione, i meteorologi vivono a coppie o a gruppi di quattro o cinque. Ogni tre ore escono per rilevare i dati e trasmetterli via radio alla base. Non sono padroni del loro tempo; il ritmo di lavoro a cui sono costretti genera uno stato di confusione mentale. Dietro le porte chiuse si sviluppa la devianza: alcolismo, maltrattamenti, patologie psichiche. Di tanto in tanto una scomparsa interrompe la serie dei giorni. In una stazione insulare del Mar di Laptev sono stati ritrovati gli stivali di feltro di un meteorologo: se ne è dedotto che gli orsi bianchi non digeriscono la lana. Qui nei boschi intorno a Solnecnaja, qualche decina di anni fa, il capo di una stazione odiato dai suoi uomini è sparito in una notte d’inverno senza lasciare tracce. L’amministrazione ha insabbiato il caso.
Saluto Anatoli perché Lena mi invita a prendere un tè da lei. Ha una bella testa da popolana fiamminga, con gli occhi azzurri a mandorla e il naso a punta. Abbiamo tre ore di tempo. Il tè fuma e Lena è in vena di confidenze. Quando è arrivata alla stazione aveva sedici anni. Non se ne andrebbe di lì per nessuna ragione al mondo:
«L’asfalto non mi piace, in città il catrame mi fa dolere i piedi e i soldi finiscono subito».
«E il lavoro?».
«Mi piace. Tranne gli animali selvatici. Gli apparecchi per il rilevamento sono a cinquanta metri da casa e di notte la distanza mi sembra troppo grande; allora mi metto a correre. Però non mi lamento».
«Perché?».
«Perché in certe stazioni gli strumenti sono a un chilometro di distanza».
«Sei mai stata attaccata?».
«Sì, dai lupi».
«Quando?».
«La seconda volta che ho visto un lupo è stato il 6 di giugno. Esco alle 8 e vedo le mucche che rientrano di corsa. Credevo che il bue le avesse spaventate. Torno indietro e, da lontano, mi sembra di vedere Zarek, il nostro cane. Mi volto e Zarek era vicino a me. Perciò quello là davanti era proprio un lupo! Le mucche erano già dietro di me. Corro incontro al lupo con una grossa pietra. Lui si avvicina, vedo che scopre i denti. Io lo prendo a sassate. Quanto alle mucche, forse si sono vergognate perché hanno fatto dietro front e sono tornate!».
«Le mucche sono tornate?».
«Sì, e anche il bue. Allora il lupo comincia ad arretrare, sempre mostrando i denti, come invitandomi a seguirlo. Io gli vado dietro e continuo a lanciare pietre; riprendo coraggio, ho tutta la mandria dietro di me!».
«Brave bestie».
«Sì, ma un altro anno abbiamo avuto delle perdite».
«Ancora i lupi?».
«No, gli orsi».
«Gli orsi?».
«Sento ululare i cani. Ululavano come non mai. Corro fuori a vedere. Dopo, le ragazze mi hanno detto che ero stata pazza a uscire da sola. Se l’orso fosse stato ancora là fuori, mi avrebbe uccisa. Esco e vedo il bue che agonizza a terra. Aveva le zampe spezzate, delle ferite sul muso e un grosso lembo di carne strappato via dalla spina dorsale. L’orso gli aveva rotto le zampe perché non fuggisse».
«Povero bue!».
«Ho fatto dietrofront e sono tornata dentro di corsa. Ho chiamato Palyč bisognava fare qualcosa. Lui lo ha finito a coltellate. Io non ho mangiato quella carne. L’indomani è stata trovata la mucca».
«La mucca?».
«L’orso l’aveva già ricoperta di terra prima che arrivassi. A qualche centinaio di metri dal punto dove aveva aggredito il bue. Le aveva fatto una tomba... il ventre era squarciato. Era una mucca gravida. Si vedeva il vitello; alla mucca era stato strappato il muso. Io mi affeziono alle mucche come se fossero bambini. Quell’anno ho avuto una depressione». Lena si alza per mandare un appello con la radio: «Se salto tre messaggi di seguito, vuoi dire che sono morta». La saluto sentendomi ancora più innamorato della Russia, un paese dove si lanciano razzi nello spazio e si affrontano i lupi a sassate. Dopo aver percorso due chilometri su lastre di ghiaccio lunare simili a gelatina di medusa innervata di turchese, arrivo a Pokojniki, da Serghej e Nataša. Serghej ha preparato un hanya dove boccheggiamo per un’ora. Poi beviamo una bottiglia di vodka al miele senza dimenticare di brindare alle donne perché 1’8 marzo è il giorno in cui l’uomo si riabilita.
14 MAGGIO
Il tempo il tempo il tempo il tempo il tempo il tempo il tempo il tempo il tempo. Toh! È passato!