Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 30 Martedì calendario

NELLA RETE DELL’ISTAT


Ci sono numeri, quelli forniti dall’Istat, che servono a scrivere leggi e regolamenti, sono un punto di riferimento, ad esempio, per stabilire i flussi migratori o le tariffe dei servizi pubblici. Dalle gare d’appalto agli assegni di mantenimento per le coppie divorziate, la vita degli italiani è influenzata dalle statistiche ufficiali e basta un’oscillazione, lo spostamento di un decimale, per innescare effetti imprevedibili: fiumi di soldi cambiano direzione, ballano posti di lavoro, tremano intere famiglie. Ecco perché l’accuratezza, la trasparenza e l’indipendenza l’Istituto nazionale di statistica dovrebbero essere fuori discussione. Guai se i dati fossero sbagliati, o peggio, manipolati ad arte. Se l’Istat, invece di fornire dati attendibili, desse letteralmente i numeri, sarebbe un disastro incalcolabile. E allora perché i conti non tornano? Sembra incredibile, ma alcune statistiche proprio non quadrano. Per capire il motivo, Rolling Stone ha passato al setaccio numeri e tabelle: ciò che abbiamo scoperto mette a dura prova la credibilità della statistica pubblica. I dati sulla produzione industriale, ad esempio, ogni tanto impazziscono. E’ successo nell’autunno del 2011, nel bel mezzo della crisi economica. Il quarto governo Berlusconi, in quel periodo, è prossimo alla caduta, bombardato dalle cattive notizie: colossi imprenditoriali in fallimento, capitani d’azienda (e non solo) che si lanciano dalla finestra, operai trincerati sui tetti delle fabbriche. Ma il 10 ottobre, a sorpresa, spunta un’ottima notizia; la produzione industriale è cresciuta del 4,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente."E il dato migliore degli ultimi anni", scrive il Corriere della Sera. "Nessuno se l’aspettava, gli uffici studi sono spiazzati", commenta il Sole24Ore. Per tanti italiani è un sollievo: forse la crisi non è così grave. Prendono fiato anche i ministri, e lo sprecano subito: "L’economia si muove, bisogna assecondarla", dice il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, e Paolo Romani, ministro allo Sviluppo, riconosce un "segnale incoraggiante, che dimostra la solidità dell’economia italiana". La produzione di autoveicoli, in particolare, nel mese di agosto sembra cresciuta in modo impressionante, con un’impennata del 31,7% rispetto all’estate dell’anno prima. Il merito, ovviamente, viene attribuito alla Fiat. A quanto pare la controversa strategia dell’amministratore Sergio Marchionne ha funzionato e fa da traino all’economia dell’intero Paese. Altro che Germania e Volkswagen: siamo noi il modello vincente. Ma ecco qui di seguito come vanno veramente le cose.

I DATI SULLE AUTO? CORRETTI FORMALMENTE, MA FUORVIANTI
È un nuovo miracolo italiano? Macché. Il miracolo l’ha fatto l’Istat, pubblicando un rapporto sulla produzione industriale che ha messo tutti pericolosamente fuori strada. Perché già nell’autunno del 2011 eravamo sull’orlo di un baratro, come si è visto poi chiaramente nell’ultimo anno: la produzione è tuttora in calo e il mercato italiano dell’auto non è mai andato così male. Possibile che l’Istat abbia preso una cantonata? Per una volta, invece di accogliere i rapporti dell’Istituto di statistica come fossero le tavole di Mosè, proviamo a verificare i dati. Chiediamo all’Anfia, l’Associazione italiana dei produttori di autoveicoli (Fiat in testa), di confermare l’aumento della produzione dichiarato dall’Istat. «Non esistono dati confrontabili», rispondono dall’associazione. «Abbiamo informazioni sulla produzione di automobili, ma per quel periodo non esistono dati sulla produzione di tutti gli altri autoveicoli». Sono disponibili tutti i numeri per qualsiasi periodo precedente o successivo, ma non quelli utili per il confronto: una coincidenza davvero sfortunata... Pazienza, accontentiamoci delle sole automobili: quante macchine sono state costruite ad agosto del 2011 rispetto all’anno precedente? «Per quel mese», dicono dall’Anfia, «l’aumento è stato del 6,1%». Ma come? Poco più del 6%? Siamo molto, troppo lontani dal 31,7% dichiarato dall’Istituto italiano di statistica! Il direttore delle statistiche congiunturali dell’Istat, Gian Paolo Oneto, è impassibile: «Il nostro dato è corretto. Lo confermiamo». Ma allora perché l’associazione dei costruttori denuncia numeri cinque volte inferiori? «Perché i dati dell’Istat e quelli dei costruttori», risponde Oneto, «non sono direttamente confrontabili. Fra l’altro, non bisogna dimenticare tutti gli altri autoveicoli, che noi abbiamo contato». C’è un solo problema: quanti camion, autobus, trattori o autocarri sarebbero mai stati costruiti, in un solo mese, nel bel mezzo di una crisi, tanto da giustificare numeri così diversi? Migliaia e migliaia di mezzi pesanti, tanti da surclassare la produzione di automobili? «In effetti», ammette il dirigente, «è abbastanza improbabile». Sembra l’ammissione di un errore, ma siamo appena all’inizio: «A dire il vero», spiega lo statistico, «quei dati non dovrebbero essere presi in considerazione. Infatti, per il mese di agosto, applichiamo dei correttivi che tengono conto, ad esempio, dei giorni di vacanza. Ma se gli stabilimenti produttivi restano aperti, allora le statistiche segnano un picco anomalo. Noi lo chiamiamo "overlay". Può capitare, è perfettamente normale». Conclusione: i dati sono completamente sballati? «No, no, sono formalmente corretti. Ma possono essere fuorvianti». Ecco, è così che funziona: l’Istat sostiene che la produzione di autoveicoli è aumentata di un terzo, anche se in realtà, come si è visto, non è vero per niente. L’informazione sbagliata, però, si diffonde e influenza governo, Parlamento, imprenditori, sindacati e opinione pubblica, creando confusione e fraintendimenti in un momento vitale per il Paese. Se provi a chiederne conto, però, scopri che siamo tutti fessi, ci siamo lasciati fuorviare da un correttivo, abbiamo abboccato a un volgarissimo "overlay". E tanti saluti.

POVERTÀ STABILE (MA NON SECONDO LA CARITAS)
Il metodo utilizzato dall’Istat è preoccupante, perché confonde il fine col mezzo: la correttezza delle formule sembra avere più importanza della verosimiglianza dei dati. Con questa filosofia l’Istat rischia di fotografare un Paese parallelo. Gli esempi sono numerosi. Per la statistica pubblica, ad esempio, il numero dei poveri non cambia mai. Nel 2011 gli "indigenti" sono diminuiti dello 0, 3%. L’anno prima erano aumentati, ma solo dello 0, 6%. Insomma, sono più o meno sempre gli stessi. Ma se uno si affaccia alla finestra, in una grande città come Roma, nota un andirivieni di gente che fruga nei cassonetti. A modo loro fanno la spesa: negli ultimi due anni sono sempre più numerosi. Certo, l’esperienza diretta non conta nulla dal punto di vista statistico. Ma l’ultimo rapporto della Caritas merita qualche attenzione: gli ospiti delle mense dei poveri, nel 2010, sono aumentati addirittura del 25%. Di questi, il 40% sono italiani. I questionari e le telefonate dell’Istat, a quanto pare, nei dormitori non sono arrivati. Per capire chi e come è stato interrogato basterebbe che l’Istat fornisse alcune informazioni sui metodi di ricerca, come fanno, del resto, tutti gli istituti statistici privati. Invece...

QUESTIONE DI PRIVACY, MA ANCHE DI COMODO
Sui campioni di riferimento dovrebbe essere garantita la massima trasparenza: è opportuno sapere, ad esempio, quante persone o aziende sono state effettivamente contattate, con quali strumenti di rilevazione, e quante hanno effettivamente risposto. In qualsiasi pubblicazione statistica non dovrebbero mai mancare, a fianco alle percentuali, anche i valori assoluti. Ma l’Istat, molto spesso, non fornisce queste informazioni, neppure ai giornalisti. Motivo? "Segreto statistico". Gian Paolo Oneto, il dirigente dell’Istat, sostiene che «il segreto statistico può essere applicato solo in casi particolari. Ad esempio, per proteggere i dati relativi ad aziende in regime di concorrenza. O per rispettare la privacy dei soggetti interrogati. Per il resto, cerchiamo di diffondere il maggior numero di informazioni possibili». Ma dov’è il confine fra trasparenza delle statistiche e riservatezza degli intervistati? È l’Istat a decidere, di volta in volta, quando ricorrere al "segreto statistico", e lo fa spesso e volentieri. Evitando di specificare, nella stragrande maggioranza dei casi, la percentuale di mancate risposte ai questionari. Per scoprire le cifre è stata necessaria un’ispezione della Guardia di Finanza, nel 2007, su ordine della Corte dei conti. L’Istat, infatti, avrebbe l’obbligo di multare chi rifiuta di rispondere ai questionari, ma la Corte dei conti ha scoperto che in cinque anni, dal 2002 al 2007, l’Istituto non aveva riscosso neppure una multa: mancavano all’appello la bellezza di 243 milioni di euro. Le omissioni dell’Istat sono state risolte dal governo Berlusconi: il processo della Corte dei conti è stato bloccato da un decreto. Nel frattempo, però, grazie alle ispezioni, i dati segreti sono venuti allo scoperto. Perciò adesso sappiamo, per l’arco di cinque anni, qual è il tasso di mancate risposte ai questionari inviati dall’Istat: una quantità spaventosa, circa il 50%. Metà dei moduli, insomma, finiva regolarmente nel cestino. Ma che valore hanno statistiche ottenute solo con la metà dei questionari? Sarebbe anche interessante sapere se, dopo il 2007, il tasso di mancate risposte ai questionari è rimasto cosi basso. Per capirlo, servirebbe un’altra ispezione. Oppure, basterebbe definire esattamente quali e quante informazioni possono essere nascoste dal "segreto statistico".

QUANTO È DIFFICILE CONTARE GLI ABITANTI DI ROMA
Ogni 10 anni, comunque, in Italia si taglia la testa al toro e ci si conta tutti, uno per uno, mettendo da parte le ricerche a campione, come si faceva ai tempi di Erode: "Quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò un censimento di tutte le terre...". Il censimento del 2011 è ancora fresco nella memoria degli italiani; diversamente dai decenni precedenti, gli agenti rilevatori dell’Istat non sono andati a bussare casa per casa perché, per risparmiare, i questionari sono stati spediti per posta. Senza considerare, però, che la popolazione italiana è composta in gran parte di anziani, che in molti casi hanno avuto difficoltà a compilare i moduli da soli. Forse l’incidenza di errori è aumentata, ma consoliamoci almeno si è risparmiato il denaro dei contribuenti. Oppure no? Il censimento del 2011 è costato 590 milioni di euro. Il censimento precedente, con una pletora di rilevatori a libro paga, al netto dell’inflazione, era costato il 60% in meno. Altro che risparmio: in 10 anni, il servizio è peggiorato e, oltretutto, i costi sono schizzati alle stelle. Per conoscere i risultati del censimento, in ogni caso, dovremo aspettare ancora un paio d’anni: c’è da sperare che si risolva, una volta per tutte, il mistero degli abitanti del Comune di Roma. Infatti, nel conteggio precedente, l’Istat aveva perso per strada alcune centinaia di migliaia di romani. Secondo l’anagrafe la popolazione di Roma era formata da 2.820.247 individui. Per l’Istat, 273 mila in meno. A chi dare ragione? Un bel problema, visto che il numero degli abitanti, fra l’altro, serve a calcolare i fondi necessari per il Servizio sanitario regionale. Trecentomila romani, a spanne, corrispondono a 450 milioni di euro all’anno. Perciò l’Istat ha ripetuto i calcoli. In un comunicato del 2006 si parla di una "prima revisione" che porta il numero dei romani a 2.696.543, a metà strada fra il dato del censimento e quello dell’anagrafe: come è noto, la virtù sta nel mezzo. Ma della "seconda revisione", finora, non si è avuta notizia.

I TRENI FUNZIONANO BENE? E LE POSTE? L’ISTAT LO CHIEDE DIRETTAMENTE A LORO...
Certe stranezze si potrebbero giustificare con i capricci della matematica, se davvero l’Istat fosse un meccanismo perfetto. Ma basta dare un’occhiata al Sistan, il Sistema statistico nazionale, per capire che la matematica non c’entra. Dal 1989, per contenere i costi, l’Istat si serve di una miriade di enti sparsi sul territorio. In ogni ministero, ente locale, prefettura o Camera di commercio, c’è un dipendente con il compito di spedire dati all’Istituto di statistica. Le circa 9.600 persone che svolgono questo lavoro, in 3.468 uffici sparsi per l’Italia, compongono la grande rete del Sistan. Non sono stipendiati dall’Istat, ma direttamente dall’ente che dovrebbero tenere sotto osservazione. Se l’Istat ha bisogno di dati, ad esempio, sul Comune di Castel Castagna, li chiede alla signora Luciana, stipendiata dal sindaco di quel Comune. Finché si tratta di Castel Castagna, pazienza. Ma quando tocca stabilire le spese, ad esempio, della Presidenza del Consiglio dei ministri, la faccenda comincia a farsi seria. Perché i dati sono forniti direttamente da un uomo del presidente del Consiglio: secondo l’ultima relazione al Parlamento sul Sistan, un terzo degli addetti alla statistica svolge anche mansioni di "staff a supporto dei vertici". La tentazione di "aggiustare" un po’ i numeri, quindi, può essere forte. Vale lo stesso per i servizi pubblici: occorrono dati sui treni, sul servizio postale, sull’elettricità? Li forniscono Ferrovie dello Stato Spa, Poste Italiane Spa ed Enel spa, tutte società di diritto privato (Enel è anche quotata in Borsa) iscritte al Sistan. In una raccomandazione della Commissione europea del 2005 è scritto che dovrebbe essere garantita "l’indipendenza professionale delle autorità statistiche da altri servizi e organismi politici, amministrativi o di regolamentazione, nonché da operatori del settore privato". Ma in Italia, per sapere com’è il vino, preferiamo ancora chiedere all’oste.

ESPERTI IN STATISTICHE (NON IN STATISTICA)
La qualità dei dati grezzi, come abbiamo visto, dipende direttamente dalle capacità dei dipendenti degli enti pubblici che svolgono il lavoro per conto dell’Istat. Ma come vengono arruolati i custodi della statistica nazionale? In realtà, dei 3.468 uffici del Sistan, solo il 5.6% si occupa esclusivamente di statistica: gli altri sono accorpati ad altri uffici che hanno a che fare con amministrazione, o gestione del personale, o con qualsiasi altra cosa. Dalla relazione al Parlamento, oltretutto, scopriamo che il 40% dei dipendenti di questi uffici non ha la più pallida idea di cosa dovrebbe fare. La metà, in compenso, ha solo "un’idea generica". Si salva un decimo degli uffici: riponiamo in loro la nostra fiducia. Peccato che solo il 3,1% abbia una laurea in scienze statistiche. A questo proposito, nell’ottobre 2010, l’onorevole Maria Grazia Siliquini interrogò l’allora ministro della funzione pubblica Renato Brunetta, che però preferì rispondere in forma riservata. Forse perché la risposta che abbiamo recuperato è troppo sottile per il grande pubblico. Sostiene Brunetta che i dirigenti degli uffici del Sistan "devono essere esperti in statistiche, piuttosto che in statistica". La differenza sta tutta in una sillaba: non importa che siano scienziati, basta che sappiano cos’è un numero. In conclusione, sulla qualità delle fonti dei dati grezzi è meglio sorvolare. Resta la speranza che una volta spediti in via Balbo, a Roma, nella sede principale dell’Istat, i numeri siano cucinati in modo sapiente: anche con ingredienti di risulta, dopotutto, un bravo cuoco può sfornare un pasto dignitoso. All’Istat, in mancanza di meglio, si può chiedere almeno una garanzia: l’indipendenza. Forse le statistiche non sono perfette, ma che almeno siano stilate in reale buona fede, al riparo da qualsiasi tentativo di manipolazione. Il nemico numero uno, da questo punto di vista, è il governo. Fra tutti i poteri dello Stato, sicuramente l’esecutivo è più facilmente soggetto alla tentazione di esercitare pressioni sulla statistica pubblica, E allora: chi è che nomina i dirigenti dell’Istat? Il Consiglio dei ministri, ovviamente. E i membri della Commissione di garanzia che dovrebbe vigilare sulla "imparzialità e completezza dell’informazione statistica", da chi sono nominati? Forse dal Parlamento? Ma no, sempre dal governo. È la quadratura del cerchio. A questo punto non possiamo non chiederci: da un punto di vista puramente statistico, qual è la probabilità che l’Istat fornisca informazioni realistiche?