Mikal Gilmore, Rolling Stone 11/2012, 7 novembre 2012
UNA VOCE DA DENTRO– [BOB DYLAN]
È una giornata di mezza estate: manca poco più di un’ora al tramonto, e Bob Dylan ed io siamo seduti a un tavolo sul retro di un ristorante a Santa Monica, California. Dylan – giacca di pelle nera abbottonata sopra una spessa t-shirt bianca – è molto più vestito di quel che il clima del Sud della California richiederebbe. Un cappello di lana bianco e nero gli copre orecchie e fronte, mentre dalla base spunta un ciuffone di capelli biondo-rossicci (chiaramente una parrucca). Davanti a sé ha solo un bicchiere d’acqua fredda. Nel corso della nostra chiacchierata, talvolta mi sono trovato a dover far pressione su alcune domande che Dylan respingeva con fermezza. Ma al tempo stesso — in questa come nelle conversazioni che abbiamo avuto nei giorni successivi, al telefono e via email – Dylan non si è mai risparmiato, né ha mai deliberatamente tentato di controllarsi. Da questo punto di vista, credo che quello che troverete qui sia il Bob Dylan più aperto e sincero che abbiate mai potuto leggere in vita vostra.
I 15 anni dall’uscita di Time Out of Mind a oggi sono stati tra i più significativi per la tua carriera, in termini di creatività. E Tempest sembra un disco denso di narrazione esattamente come – appunto – Time Out of Mind o Love and Theft...
Tempest è un album come tutti gli altri: un gruppo di canzoni che si incastrano una nell’altra. In realtà quello che volevo fare in un primo tempo era un disco a tema religioso, solo che ci voleva troppa concentrazione.
In ogni caso, è indubbiamente uno dei tuoi lavori più incisivi di sempre. Per me è sullo stesso piano di Time Out of Mind, sebbene sia più aperto e meno introspettivo.
Time Out of Mind è stato il primo in cui ho iniziato a scrivere pensando al pubblico che vedevo davanti a me in tournée, sera dopo sera: persone diverse, che vivono in città diverse e hanno età e vite diverse. Era assurdo pretendere che queste persone dovessero riconoscersi ancora in canzoni scritte 30 anni prima. No, se volevo continuare a suonare dal vivo avevo bisogno di pezzi nuovi da suonare davanti al pubblico: non era importante che quelle canzoni finissero poi in un album, era importante averle, per poterle suonare dal vivo. Non erano canzoni scritte per essere ascoltate a casa.
Quel disco è stato accolto unanimemente come un punto di svolta nella tua carriera, e in qualche modo ha rappresentato l’inizio di un ciclo vincente: ogni cosa che hai fatto da allora è un’opera d’arte a sé stante.
Spero sia così. Devi arrivare alla gente. C’è il vecchio e c’è il nuovo, e bisogna entrare in sintonia con entrambi. Il vecchio va via e il nuovo avanza, ma non c’è un confine marcato. E poi, prima che tu possa accorgertene, è tutto nuovo. Che fine ha fatto il vecchio? È come un trucco magico, non devi perdere il filo. È successo così con gli anni ’60. I primi anni ‘60 – almeno fino al 1964/65 – in realtà erano indistinguibili dai tardi anni ’50. È stato Woodstock, direi, a cancellare definitivamente gli anni ’50. Spariti, una volta per tutte.
A volte si ha come l’impressione che tu non ami particolarmente gli anni ’60...
Gli anni ’50 furono un periodo più semplice. Almeno, per me fu così. Non ho mai sperimentato nessuna di tutte quelle cose che senti sempre raccontare dalle persone della mia età che vivevano nelle grandi città. Dove sono cresciuto io, eri lontanissimo dall’influenza di qualsiasi centro culturale. Era un posto fuori dalle mappe. Ma avevi un’intera città a tua disposizione, e mentre giravi per le strade non percepivi mai nulla di simile alla tristezza, alla paura o all’insicurezza. C’erano solo i boschi, i fiumi, il cielo e l’avvicendarsi delle stagioni. Tutta la cultura che ci era concessa era rappresentata dal circo, le giostre, i predicatori, i piloti acrobatici, qualche occasionale spettacolo comico e le big band. E poi la radio: show potentissimi con musica potentissima. Era prima che arrivassero i supermercati, i centri commerciali e tutto il resto. Per questo dico che era tutto più facile. E se cresci in quel modo, ti rimane dentro.
La gente era comunque convinta che la tua musica parlasse agli anni ’60 e li rispecchiasse. Pensi valga anche per la musica che fai dal 1997?
Certo, la mia musica si rivolge sempre al presente. Anche se, al tempo stesso, quella natura umana che mi interessa indagare nelle canzoni trascende la divisione in epoche storiche. Le mie canzoni riguardano soprattutto l’individuo: sono difficili da condividere. Non ho mai immaginato che la gente cantasse insieme a me, sarebbe stato ridicolo. Non sono il tipo da falò sulla spiaggia. Del resto, non mi pare che la gente canticchiasse le canzoni di Elvis, Carl Perkins o Little Richard. Il tuo compito è far sentire alla gente le proprie emozioni, non le tue. Un performer, quando sa fare il suo mestiere, non prova alcuna emozione. È questa l’alchimia che appartiene ai cantanti.
Ti preoccupa che il pubblico possa fraintendere ciò che scrivi? Ad esempio, c’è ancora chi crede che Rainy Day Women faccia riferimento alla cultura dello sballo...
Non mi sorprende ci sia ancora qualcuno che lo pensa. Sono persone che non hanno dimestichezza con gli Atti degli Apostoli (l’equivoco nasce dal passaggio del testo dove Dylan canta; "They’ll stone ya", dove "to stone" può essere inteso come "sballare", ma anche come "lapidare", ndt).
Ti consideri una voce visceralmente americana? Te lo chiedo per la profondità con cui le tue canzoni hanno spesso raccontato – e commentato – la storia del nostro Paese...
Molte sono canzoni storiche, è vero: ma anche biografiche, geografiche. Rappresentano sempre uno specifico stato d’animo. Le congetture che sento fare su di me sulla base di quello che scrivo sono irrilevanti. Se vado a vedere un film come Cime tempestose, non mi chiedo come sia davvero Laurence Olivier. Se vedo un attore sul palco, non penso a come sarà nella realtà. Sono lì perché voglio dimenticare me stesso e ciò che mi preoccupa nella vita reale. Lo spettacolo è un po’ come lo sport, da questo punto di vista.
Hai un bisogno profondo di rimodellare costantemente le cose, vero?
È nella natura stessa dell’esistenza. Nulla è per sempre. Gli alberi crescono, le foglie cadono, i fiumi si prosciugano e i fiori muoiono. E nascono i bambini. La vita va avanti.
Dal punto di vista del tuo lavoro, un tour è parte di questo ciclo?
Le tournée possono significare quello che vuoi. Viaggi, vedi cose che standotene seduto a casa tua non avresti mai visto. E suoni per uomini e donne di tutti i Paesi e di tutte le nazionalità.
Miles Davis diceva che è durante i concerti che la musica ha davvero vita propria...
Certo, la penso proprio come Miles. Ne discutevamo, insieme. In uno studio di registrazione, le canzoni non sono mai vive. Fai del tuo meglio, ma è come se ti mancasse sempre qualcosa. E quel che manca è il pubblico. Per questo Frank Sinatra, quando registrava, portava quanta più gente poteva in studio: per avere una presenza fisica che l’aiutasse a entrare nelle canzoni.
Eppure, per un lungo periodo tra il 1966 e il 1974, avevi smesso completamente di esibirti dal vivo...
Avevo smesso, poi ho ricominciato. Le cose cambiano. E poi suonare dal vivo non vuol dire per forza girare in tour. Puoi andare a Las Vegas, esibirti lì per un’intera stagione. C’è chi lo fa. Forse anch’io lo farò, un giorno. Ci sono modi peggiori per finire la propria carriera. Questo non è un mestiere in cui si va in pensione: svanisci lentamente, piuttosto. Perdi l’energia. La gente non è più interessata a te.
Ma è più un mestiere o una vocazione, secondo te?
Tutti hanno una vocazione: grande o piccola, non importa. Ma sono pochi gli eletti. Ci sono troppe distrazioni, quindi rischi di non scoprire mai chi sei veramente. E infatti molte persone non ci riescono.
Beh, uno che ha sentito una chiamata è stato ovviamente il presidente Obama... Speravi, o immaginavi, che la sua elezione rappresentasse un vero cambiamento?
Non ho opinioni al riguardo. Se vuoi il cambiamento, è il tuo cuore che deve cambiare.
Ha subito aspre critiche, dopo essere stato eletto.
Ma andò così anche con Bush. E con Clinton, e prima ancora con Jimmy Carter. E guarda cosa hanno fatto a Kennedy, se è per quello. Chiunque finisca a fare quel lavoro, è destinato a non avere vita facile.
Non credi che parte delle reazioni contro Obama sia dovuta al fatto che è un presidente nero?
No. Quando è stato eletto, la gente lo adorava. Devo ripeterti quello che ho appena detto? È un lavoro che ti espone alle critiche. C’è gente che ha cambiato opinione? Allora dovresti chiederlo a loro. Perché l’hanno votato? Perché hanno cambiato opinione?
Che impressione ti ha fatto Obama quando l’hai conosciuto?
Ok, vuoi sapere cosa ne penso? Mi piace. Ma stai facendo la domanda alla persona sbagliata. Sai a chi lo dovresti chiedere?A sua moglie: è l’unica che potrebbe raccontarti qualcosa che conta davvero. Io l’ho incontrato solo un paio di volte, e cosa vuoi che ti dica? Ama la musica. È una persona piacevole. Si veste bene. Che cazzo vuoi che ti dica?
Beh, vivi nel mondo reale, avrai anche tu reazioni rispetto agli alti e bassi che attraversa il Paese. Ad esempio: sei contrariato dalla diffidenza che ha incontrato il presidente? Vorresti vederlo rieletto?
Ho vissuto sotto molti presidenti. Alcuni vengono rieletti, altri no. E l’essere rieletto non è necessariamente il segno di un grande presidente. A volte, il tipo che mandi a casa, poi, è proprio quello che qualche tempo dopo ti trovi a rimpiangere.
Scusa se insisto, ma è per via di una cosa che hai detto la sera in cui è stato eletto Obama: "Sembra che le cose stiano per cambiare". Credi ci sia stato il cambiamento che avevi intravisto?
Devo ripeterti daccapo tutto ciò che ho appena finito di dirti? E non ricordo di aver mai pronunciato quella frase.
Era la sera dell’elezione, nel 2008. Sul palco dell’Università del Minnesota, presentando il tuo gruppo, hai indicato il bassista dicendo: "Tony Garnier, che ha addosso una spilletta di Obama. A Tony piace pensare che sia l’inizio di una nuova epoca. Un’epoca illuminata. Io sono nato nel 1941, l’anno in cui fu bombardata Pearl Harbor. Beh, quello in cui vivo da allora è un mondo oscuro. Ma ora sembra che le cose stiano per cambiare".
Non so cosa ho detto o non detto quella sera. Può essere che Tony avesse una spilla di Obama, e forse io ho detto determinate cose perché in quel momento avevano senso. Magari intendevo che le cose sarebbero potute cambiare. E forse sono cambiate davvero. Ma qualsiasi cosa abbia detto, è stata detta per il pubblico in sala quella sera. Capisci? Non era un discorso fatto per essere registrato su un disco e ascoltato per l’eternità.
Ho l’impressione che tu non voglia sbilanciarti sul presidente e su quanto sia stato criticato.
Ti ho detto tutto quello che potevo dire al riguardo.
In tal caso, torniamo a Tempest. Puoi raccontare qualcosa sul tuo metodo di scrittura in questo periodo?
Riesco a scrivere canzoni anche in una stanza piena di gente. L’ispirazione può arrivare in qualsiasi momento. È magia, va ben oltre la mia persona.
Nel disco sei accreditato anche come produttore: come descriveresti il suono che avevi in mente?
Il suono è tutt’uno con le canzoni. Ma c’è una storia buffa, al riguardo. Qualcuno mi ha detto che Justin Bieber non riuscirebbe mai a cantare nessuna di queste canzoni. Ho risposto che, tutto sommato, forse nemmeno io riuscirei mai a cantare nessuna delle canzoni di Bieber. E il tizio: "Beh, meno male".
Parli spesso della morte, ad esempio nelle ultime tre canzoni del disco: Tin Angel, Tempest e Roll On John, accomunate da un finale tragico...
I protagonisti di Frankie and Johnny, Stagger Lee ed El Paso fanno tutti una brutta fine, come pure in una delle mie canzoni preferite di sempre, Delia (dedicata alla vittima 14enne di un omicidio razziale, in Georgia agli inizi del ’900, ndr). Potrei elencarti almeno un centinaio di canzoni in cui tutto si conclude in tragedia. Ma è la Tradizione, ed è a quella che io appartengo: tradizione, con la "T" maiuscola. Nella musica folk tutte le canzoni parlano della morte. Perché la morte fa parte della vita. Ma invece tutti dicono: "Queste canzoni parlano della morte. E già: Dylan è vecchio, no? E inevitabile che ci pensi".
È interessante che subito dopo l’affondamento del Titanic siano state scritte molte canzoni folk, blues e country sull’argomento. Secondo te perché?
Allora le canzoni avevano anche una funzione informativa. Oggi non hai bisogno di una canzone sull’incendio scoppiato a Chinatown la scorsa notte: già lo puoi vedere in qualunque telegiornale.
In Tempest c’è anche una canzone su John Lennon, Roll on John. Cosa ti ha spinto a registrarla ora?
Non me lo ricordo. Mi andava di farlo, poteva succedere adesso come in qualsiasi altro momento. Tra l’altro la canzone non è esattamente nuova: avevo iniziato a provarla dal vivo già l’anno scorso, e non ero neanche sicuro che andasse bene per questo disco. Ho provato, funzionava, ed è finita sull’album.
Lennon dichiarò spesso che la tua musica era per lui una grande fonte d’ispirazione, pur sentendo al tempo stesso molto forte la competizione con te. C’è mai stato del disagio tra voi, per questa ragione, quando eravate insieme?
John veniva dal Nord dell’Inghilterra, dall’hinterland: l’equivalente del posto da cui arrivavo io in America. Una delle cose che avevamo in comune era proprio la provenienza territoriale: due posti isolati, anche se il mio aveva ancora meno sbocchi del suo. Quando arrivi da posti del genere hai tutto contro, e devi possedere del talento per uscirne. Io e John avevamo la stessa età, ed eravamo cresciuti ascoltando esattamente le stesse cose. Vorrei che fosse ancora qui, avremmo tanto di cui parlare ora.
Tra le fonti d’ispirazione di Tempest credo si possano facilmente riconoscere Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Charley Patton... Ti consideri un bluesman?
I bluesmen vivevano vite difficili, di grande sofferenza. Io ho troppo rock&roll nel sangue per potermi considerare un cantante blues.
A partire dagli anni ’80, molte delle tue canzoni si muovono in un territorio oscuro. È il riflesso di una tua personale lotta religiosa?
Nah, non ho mai avuto nessuna crisi religiosa. La fede è qualcosa che devi amplificare giorno per giorno. E comunque, tutti prima o poi attraversano una crisi, questo è certo.
È cambiato il tuo atteggiamento verso la fede?
Certo. Ma chi può definire la mia fede? Nessuno, credo. Io vedo la mano di Dio in ogni cosa: in ogni persona, in ogni luogo. Si può avere fede in qualunque cosa, no? Tu potresti aver fede nel Bloody Mary che stai bevendo. Forse ha il potere di calmarti (ride).
Ma è solo acqua, non è un Bloody Mary!
Beh, a me sembra proprio un Bloody Mary, ed è quello che racconterò in giro... (ride ancora).
La fede è qualcosa di cui in passato hai sempre voluto parlare tu.
Certo, ma prima era prima, e adesso è adesso... Ho abbastanza fede nel mio cuore per poter essere fedele a me stesso. La fede è una buona cosa: può smuovere le montagne. E ovviamente non sto parlando della fede che hai tu nel tuo Bloody Mary, ma della fede che ha la gente come me. Un po’ di fede può fare tanto, ma ci vuole tempo per conquistarla. Devi continuare a cercare.
Capita che persone che avevano trovato la fede, a un certo punto, sentano di averla persa.
È vero. La vita può darti delle belle batoste. Succede a tutti di prendere botte in testa. E qualcuno viene colpito più duramente di altri. C’è chi ha più opportunità, e chi neanche una. Allora devi andare avanti e darti da fare. Proprio come insegna Hard Travelin’, la canzone di Woody Guthrie.
È evidente quanto il linguaggio della Bibbia contribuisca all’immaginario delle tue canzoni...
Ovvio, a cosa dovrei ispirarmi, altrimenti? Credo nel Libro della Rivelazione. Credo nella sua divulgazione. Ma c’è verità in tutti i libri: Confucio, Sun Tzu, Marco Aurelio, il Corano, la Torah, il Nuovo Testamento, i sutra buddisti, il Bhagavad-Gita, il Libro dei morti egiziano, e migliaia di altri testi. Non puoi affrontare la vita senza leggere qualche buon libro.
Time Out of Mind iniziava con l’immagine di qualcuno che si incamminava lungo strade desolate.
C’era un sacco di gente a spasso in quel disco, vero? Sì, me l’hanno detto in tanti.
Però potrebbe trattarsi di un cammino lungo una strada che porta alla morte, oppure di una strada verso l’illuminazione.
Già, qualsiasi strada. Lungo quante strade dovrà camminare un uomo? (citazione da Blowin’ in the Wind, "How many roads must a man walk down?", ndr). Non dico correre, né guidare, né strisciare. Solo camminare. Sono cresciuto con il blues che cammina. Walking to the New Orleans, Cadillac Walk, Hand Me Down My Wakin’ Cane. Mi viene naturale, forse non so scrivere altro.
In Sugar Baby, su Love and Theft, cantavi: "Ogni istante della vita sembra un brutto scherzo". Erano parole che alludevano a un radicale cambio di prospettiva rispetto al passato?
No, non c’era stato alcun cambiamento. Ero convinto che fosse il modo in cui la maggior parte della gente percepisce la propria esistenza, e ne sono tuttora convinto.
Negli anni ’60, eri visto come un rivoluzionario, almeno fino all’incidente in moto. Poi – dopo The Basement Tapes insieme a The Band, dopo album come John Wesley Harding e Nashville Skyline – alcuni rimasero perplessi dalla tua trasformazione. Eri rientrato sulle scene con un aspetto differente, un suono diverso, sia nella voce che nella musica e nelle parole.
Ma perché quando si parla di me la gente deve diventare scema? Che cazzo di problema hanno? Ok, ho fatto un incidente con la moto. Ok, ho suonato con la Band. E, sì, ho anche fatto un disco che si chiamava John Wesley Harding che – ok – aveva un suono diverso. E allora, cazzo? Pretendono di avere risposte su cose che non so nemmeno io. E si ostinano a cercarle: sono come Pete Townshend in quella canzone dove lui dice di cercare la strada verso 50 milioni di favole (The Seeker, in cui fra l’altro è citato lo stesso "Bobby" Dylan, ndr). Perché? Non sanno nemmeno perché lo fanno. È davvero triste. Che il Signore abbia pietà di loro. Sono anime perse.
Stai dicendo che nessuno ti può realmente conoscere? Nessuno sa niente.
Cioè, ti senti incompreso?
Ma no! (Ride). Cosa c’è da capire? Chi mi dovrebbe capire? I miei parenti? Dovrei essere quello che si aspettano da me, un artista incompreso che vive in una soffitta? Che c’è da capire? Per favore, possiamo smetterla ora?
Con questo tipo di domande? Soltanto un’ultima: negli ultimi 10 anni hai scritto un’autobiografia e sono usciti I’m Not There – che è un film biografico – e No Direction Home, il documentario di Martin Scorsese. Tre tentativi di raccontare la tua storia e il più importante è proprio il tuo libro, Chronicles. Non è stato, per certi versi, un tentativo per provare a far chiarezza su alcuni aspetti della tua vita?
Se hai letto Chronicles, ti sarai reso conto che non vuole essere niente di più di quello che è. Non ci troverai certo il significato della vita. Né della mia, né di qualcun altro. E se hai visto No Direction Home, avrai notato che finisce nel 1966. E per quanto riguarda I’m Not There, non so nulla di quel film. So solo che hanno richiesto l’utilizzo di 30 delle mie canzoni.
Ma ti è piaciuto I’m Not There?
Penso sia un buon lavoro. Ma credi che il regista fosse preoccupato che la gente lo capisse o meno? No, non gliene poteva fregare di meno. Voleva solo fare un bel film. E secondo me ci è riuscito: gli attori erano incredibili.
Il film ti racconta come un individuo che ha attraversato diverse fasi e identità...
Io non mi vedo così, ma che importanza ha? È solo un film.
Prima di terminare la nostra chiacchierata, volevo sapere la tua opinione sulla controversia nata intorno alle citazioni di Confessions of a Yakuza di Junichi Saga e della poesia sulla guerra civile di Henry Timrod in alcune tue canzoni... Un paio di critici hanno scritto che tu non citi mai apertamente le tue fonti.
La citazione è parte integrante della tradizione: nel folk, nel jazz, si è sempre fatto così. Ma secondo i miei critici, questo vale per tutti meno che per me. Henry Timrod: chi l’aveva mai neanche sentito nominare prima che io lo citassi? Chiedi ai suoi eredi che ne pensano di tutta la pubblicità che gli ho fatto. Sono gli smidollati e le fighette a tirar fuori polemiche come questa. Se pensate che citare sia così facile, fate pure e vedete cosa riuscirete a tirare fuori.
Ma è un processo consapevole, quello attraverso cui una citazione finisce dentro una canzone?
No. Ma, anche se lo fosse, non è che ti trattieni. Non intendo mettere limiti a ciò che posso dire. È solo verso la scrittura della canzone che ho il dovere di essere sincero. Verso la sua melodia, il suo ritmo.
Ma perché ce l’hanno così tanto con te?
Quelli... sono gli stessi che provano da tutta la vita ad appiccicarmi addosso il nome di Giuda. Giuda, l’uomo più odiato nella storia dell’umanità! Ma perché? Perché ho suonato la chitarra elettrica? Come se suonare una chitarra elettrica fosse equiparabile a tradire nostro Signore! Per quanto mi riguarda, tutti questi figli di puttana possono marcire all’inferno...