Roberto Faenza, il Fatto Quotidiano 4/11/2012, 4 novembre 2012
TWITTER HA ABDICATO RITORNO ALLA TV - A 48
ore dalle elezioni americane c’è una sola cosa che preoccupa lo staff di Obama: la televisione. Perché mentre nel 2008 la vittoria del primo presidente afroamericano è stata conquistata grazie a una formidabile strategia fondata sui cellulari e su Internet, questa volta è la tv a farla da padrone. Non che i supporter del presidente non twittino più, ma è un dato di fatto che gran parte della sfida elettorale oggi si è spostata sul tubo catodico. Questo cambio di tecnologia può significare molto.
Non è un caso che sia al centro del dibattito odierno tra i più importanti massmediologi. La prima verità che si deduce è che mentre il web e i social network sono frequentati per lo più da elettori tra 21 e 35 anni (sono soprattutto loro che nel 2008 hanno portato Obama alla Casa Bianca), la televisione invece è territorio preferito dal pubblico adulto, quello definito stanziale. Ecco perché molti sondaggi odierni oscillano e le elezioni appaiono ancora incerte. Due settimane fa ero in Usa per lavoro. Parlando con un consigliere di Obama, mi sono convinto che non pochi sondaggi possano essere “suggeriti” dagli stessi kingmaker del presidente. Interessati a influenzare i media, al fine di sollecitare al voto gli incerti e i delusi da quattro anni di amministrazione non troppo brillante. Perché il vero pericolo che corre Obama potrebbe essere la disaffezione di una parte del suo elettorato. Nelle elezioni di quattro anni fa si è recata alla urne una percentuale insolitamente alta, circa il 61% degli aventi diritto. Se una simile percentuale dovesse ripetersi, martedì la vittoria di Obama sarebbe schiacciante. È verosimile che questa volta i votanti saranno parecchi di meno. Dovessero scendere sotto la soglia del 55%, allora sarebbero guai. Perché vorrebbe dire che le fasce di popolazione più deboli, favorevoli alla rielezione di Obama – i neri, gli ispanici e i non abbienti – avrebbero fatto mancare il loro sostegno. L’opinione pubblica si è chiesta come sia possibile che il voto più importante del mondo dipenda dalla perfomance televisiva dei contendenti. Nel primo match tv il presidente ha preso sberle, nel secondo ha vinto ai punti, nel terzo ha primeggiato ma non di molto. Poi all’improvviso è accaduto un fatto imprevisto, che ha travolto i bookmaker. Si tratta di Sandy, l’uragano che ha devastato il Paese.
La scalata nei sondaggi
Obama ha finalmente tirato fuori la grinta che per quattro anni ha lasciato sopire. Ha offerto l’immagine del condottiero, salendo nei sondaggi decisivi, quelli che arrivano dal cuore della gente. Mentre Romney è rimasto tramortito da Sandy, balbettando poche parole e sconfessando se stesso. Insensibile alla sicurezza ambientale, proprio pochi giorni prima aveva infatti incautamente dichiarato il suo dissenso nei confronti della protezione civile, alla quale decurterebbe i finanziamenti. Di peggio, di fronte a una sciagura come questa, non poteva dire. Al contrario, tanto apprezzato è stato l’intervento di Obama (ha lasciato la campagna elettorale per dedicarsi alla tempesta in corso), che persino i repubblicani più ostili gli hanno pagato tributo, spendendo in suo favore parole di ammirazione. Tutte cose che hanno mandato sulle furie Romney e ancor più sua moglie, l’ossigenata e scalmanata Ann Davies. Basta guardare le immagini del caloroso saluto con cui il governatore repubblicano Chris Christie ha ricevuto l’arrivo del presidente in New Jersey e il piglio deciso con cui Obama è sceso dalla scaletta dell’aereo, per rendersi conto dei colpi inferti a Romney. Il quale inutilmente ha cercato di continuare a far proseliti, a dispetto della tregua per fronteggiare l’uragano. Le tv del Paese hanno trasmesso quelle immagini e di nuovo i sondaggi sono schizzati. Per non parlare del traffico sul web, che sembra essersi improvvisamente scaldato e sta suonando il gong per i sogni di Romney. Venerdì si è aggiunta la dichiarazione al New York Times del sindaco indipendente di New York Michael Bloomberg, che suona come l’incoronamento anticipato di Obama. Sarebbe però un errore credere che la tv e i media siano di per sé determinanti. Perché quello che conta davvero sono i gesti e le azioni dei contendenti, con buona pace di McLuhan. Il mezzo, in questo caso, non basta a fare il messaggio. L’unica vera preoccupazione adesso è che negli Stati devastati da Sandy la gente non vada a votare per oggettive difficoltà. E a tal proposito in queste ore c’è chi discetta sulla composizione sociale dell’elettorato per capire come si distribuiranno i voti.
Impresa inutile. Basterebbe leggere il recentissimo volume di Charles Kesler su Obama, per rendersi conto che la sfida tra lui e Romney risponde a due concezioni diametralmente opposte. Il presidente, scrive Kesler, è idealmente in linea con la filosofia di Hegel, nata nel vecchio continente, per la quale lo Stato è sovrano e deve essere interventista quando serve. Di qui, l’accusa di essere, oltre che nero, anche un “dannato comunista”. Mentre per Romney lo stato deve scomparire e lasciar fare agli individui e ai privati. Disoccupati e indigenti si diano da fare, altrimenti mal gliene colga. Se non trovano lavoro e muoiono di fame peggio per loro. Prima di scrivere questo articolo, ho cercato al telefono un amico nell’entourage del presidente per avere notizie sui loro ultimi sondaggi interni. All’inizio della conversazione, mi è stato chiesto che sta succedendo in Italia, il cui caos politico è seguito a Washington con crescente allarmismo. Se cade Monti, pensano alla Casa Bianca, l’Italia finisce in bancarotta. Quanto ai sondaggi interni dell’ultima ora ho ricevuto una risposta abbottonata, come a dire incrociamo le dita. Ma è proprio da questa scaramantica cautela che traggo invece la convinzione di una vittoria fulminante di Obama. Se i risultati mi daranno torto, autorizzo un fiume di pernacchie.