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 2012  novembre 06 Martedì calendario

DI PIETRO È L’UOMO PIÙ ODIATO DA POLITICI E GIORNALI

Pierluigi Battista ha pubblicato sul Corriere della Sera un articolo intitolato “La legge del contrappasso - Di Pietro e la sottile vendetta della Storia”. Qual è il contrappasso? In una recente trasmissione di Report, Di Pietro “è parso pallido, impaurito, in difesa, in affanno” di fronte alle domande dell’intervistatrice. “Vent’anni fa - scrive Battista - incalzato dall’interrogatorio martellante dell’allora Pubblico ministero, Forlani vide finire la sua carriera politica in tv con una bavetta alla bocca che certificava il rito di degradazione di un politico potente trascinato nel fango”. Oggi a subire quest’onta, secondo Battista, sarebbe proprio Di Pietro . Battista fa finta di dimenticare che una cosa è un’intervista, trasmessa ovviamente in modo parziale, da cui non vien fuori altro che la confusionaria amministrazione del patrimonio del partito, senza che emerga alcunché di penale, altra è un interrogatorio in un processo della magistratura che si conclude con una sentenza di condanna. Forlani è stato mandato ai servizi sociali non perché aveva la bava senile alla bocca (cosa del tutto naturale a quell’età) ma perché aveva commesso dei reati . Di Pietro no, nonostante abbia subito per i più vari e pretestuosi motivi una cinquantina di processi. Ma che importa, sbuffa Pierluigi Battista assiso a monte del fiume, “quel che conta è il rito, il simbolo”.
POSIZIONE curiosa per un giornalista e un giornale che sulle intercettazioni Napolitano-Mancino ha difeso a spada tratta il Presidente della Repubblica perché quelle conversazioni fra il Capo dello Stato e un indagato e proprio sul merito di quelle indagini erano state valutate dalla Procura di Palermo ‘penalmente irrilevanti’. Ma Battista che segue un suo contortissimo filo logico scrive che la debole performance di Di Pietro a Report e altri rumors hanno tolto al leader dell’Idv quell’aura di “fustigatore della corruzione su cui ha fatto la propria fortuna politica”. La sua base non gli crede più. Quella stessa base che “non credeva alle campagne su Di Pietro, isolatissime nel mondo dei media, del Foglio e di giornalisti come Filippo Facci che metteva l’accento al di là del solito ‘politicamente rilevante’…”. Su queste campagne c’è un nome che è una garanzia, quello di Facci di cui Vittorio Feltri, suo direttore, ha scritto un epitaffio definitivo: “Non pubblicare un pezzo di Facci non è censura, è fargli un favore”. Del resto le campagne di Facci, che non ha mai fatto un’inchiesta alzando il culo dalla sedia, riguardavano vecchie storie, pre Mani Pulite, trite e ritrite (Mercedes, prestiti) da cui l’ex Pm è uscito regolarmente assolto. Naturalmente Battista addebita a Di Pietro anche la candidatura al Mugello. Invece in quell’occasione Di Pietro si comportò in modo anche troppo corretto. Se (come han fatto altri magistrati, per esempio De Magistris) si fosse candidato il giorno dopo che si tolse la toga, con l’aria che spirava allora (era tutto un Tonino qua, Tonino là, il mio amico Tonino, “Dieci domande a Tonino” squittiva Paolo Mieli sul Corriere della Sera), avrebbe preso il 90% dei voti e sarebbe diventato il padrone del Paese al posto di Berlusconi. “Perché non l’ha fatto?” gli chiesi alcuni anni dopo. “Non sarebbe stato corretto” rispose. “È vero - replicai - ma non si può sempre battersi con un braccio legato dietro alla schiena, quando gli avversari non solo li usano tutti e due ma vi aggiungono il bastone”. In verità i significati dell’articolo di Battista sono due. Il primo , in subordine, è il meschino piacere di chi è sporco di palta fino al collo di poter dire “così fan tutti” per schizzarne almeno un poco anche sugli altri. Il secondo è che Antonio Di Pietro, dopo le ipocrite euforie degli anni ‘92-‘94, è diventato l’uomo più odiato d’Italia, dai politici e dai giornalisti loro reggicoda. Perché, assieme a uno straordinario gruppo di magistrati milanesi (Borrelli, Bocassini, Gherardo Colombo, Davigo) tentò di eliminare, con le legittime armi della legge, un sistema di potere corrotto fino al midollo in cui gli uni e gli altri stavano meravigliosamente incistati. E questo non gli è stato mai perdonato da quegli stessi uomini politici, o dai loro eredi, e dai giornalisti e dagli intellettuali loro complici. In ogni caso foss’anche Antonio Di Pietro un uomo corrotto, ciò non elimina la corruzione altrui. E la lezione da trarre dalla cronaca non è la “sottile” vendetta del contrappasso, che tanto eccita Battista, ma che gli italiani si salveranno solo quando capiranno che la corruzione altrui non è un salvacondotto per la propria. Massimo Fini • PADRE PADRONE CADE INSIEME A BERLUSCONI - Mettiamo da parte le case, i terreni, i fienili e il grano in senso proprio e figurato di Antonio Di Pietro. Ha titoli per difendere la legittimità dei suoi acquisti e documenti per attestarne la liceità. Fa bene ad esibirli fin nelle più intestine descrizioni e siamo dunque d’accordo con lui: il partito non è una privata abitazione.
Forse non se n’è accorto, ma in quest’ultima settimana Di Pietro ha chiuso il partito, somministrandogli l’estrema unzione, e poi l’ha riaperto, decretandone la resurrezione, proprio come fosse la sua porticina di casa. Lunedì Italia dei Valori era morta, mercoledì il leader viaggiava, su proposta di Grillo, verso il Quirinale, giovedì era pronto un altro logo e forse un altro movimento dal nome impressionista (“Basta!”), ieri è invece ritornato sia il gabbiano che la sigla Idv, il partito è risorto e già gode di ritrovata ottima salute. Quel che Di Pietro non ha percepito è la deflagrazione della sua leadership per come si è espressa in questi anni. Il potere assoluto sul movimento e l’insindacabilità delle scelte, anche quelle più misteriose e confuse, degli uomini ai quali era chiesto di issare il vessillo della legalità, fondava sul presupposto dell’emergenza democratica, nella ribellione alla tirannide berlusconiana, nel contrasto alla quotidiana devianza dalle regole, dai doveri e dal diritto. È stata una battaglia campale nella quale il dipietrismo si è fatto carne e spirito, è divenuto linguaggio sempre più comune, intendimento che ha raccolto consensi via via più vasti, dispiegando una non trascurabile forza attrattiva. È stata premiata la caparbietà dell’ex magistrato in una lotta parsa sincera anche se impari, e il coraggio col quale ha sfidato il più forte, la determinazione ad evitare compromessi, a spalare da solo il fango, gli hanno concesso la più ampia delle facoltà: dire e fare in casa sua a proprio piacimento. Persino la scaltrezza, somministrata in dosi massicce, è parsa come un elemento costituente la personalità: il tipo è furbo, più furbo di Silvio. Che bellezza!
Ma il Tonino nazionale non sapeva che la furbizia, portata all’eccesso, sarebbe divenuta una devianza dell’intelligenza. E il potere, se non mitigato da una visione di governo, si sarebbe convertito in semplice mastice familistico. Simul stabunt simul cadent. L’oblìo del berlusconismo ha condotto anche il dipietrismo alla resa dei conti. Lo ha scoperto nel suo punto più debole: la strategia politica. Un partito per la legalità vive anzitutto di regole al suo interno, ed esse sono subito parse molto al di sotto del minimo indispensabile. Per non ridursi a un partito a tempo ha bisogno di illustrare anche il mondo nuovo che immagina e propone. E indicare i volti e le alleanze per condurci oltre la crisi, insieme civile ed economica. E qui anche la fisiognomica ha giocato da nemica. Sono comparsi a un tratto, messi in fila come sette nani, i piccoli uomini del grande leader, le loro pance, la gracile grammatica e infine i conti in banca. Il più grandioso avversario del dipietrismo si chiama Maruccio, che non è il diminutivo di Mario, ma il cognome emblema del carrierista di provincia, acquisitore di cravatte e compensi, sterminatore di bucatini all’amatriciana, fustigatore dei costumi altrui.
È SALITA a galla, come un titanic sottratto alle acque, la scelta fatta negli anni da Di Pietro. Entrava nel partito e saliva i gradini della gerarchia chi aveva più copertura di voti, chi trasformava l’urna elettorale in oro, chi aveva dimestichezza con le preferenze e le clientele. Ne usciva il militante sfigato ma forse integerrimo. Nel Molise, la sua terra, il modello vincente è stato un mix di Democrazia cristiana e berlusconismo in avanzato stato di decomposizione. Così Di Pietro ha mandato al consiglio regionale, ora sciolto, suo figlio Cristiano (e perchè?), un immobiliarista piuttosto chiacchierato, e non si direbbe una scelta felice, e un ex calciatore, un bravo figlio dal pensiero gnè gnè. Idv ha sostenuto alle passate elezioni regionali un candidato presidente che aveva navigato a lungo nelle acque di Forza Italia e l’attuale segretario provinciale di Di Pietro è stato nominato dal governatore uscente, il berlusconiano Michele Io-rio, nel consiglio di amministrazione della finanziaria regionale.
Basta questo piccolo inserto del dipietrismo di provincia per rassicurare il nostro: nessun complotto è stato ordito, è tutta farina del tuo sacco. Antonello Caporale