Andrea Malan, Il Sole 24 Ore 7/11/2012, 7 novembre 2012
QUEL BAILOUT DELL’AUTO DA 80 MILIARDI
Il salvataggio dell’industria dell’auto americana è stato uno dei temi di più acceso scontro fra Barack Obama e Mitt Romney. Un paradosso, se si considera che gli aiuti a Detroit furono – a cavallo tra 2008 e 2009 – una delle poche operazioni bipartisan degli ultimi anni: fu infatti il repubblicano George W. Bush, dopo che il democratico Obama era già stato scelto come successore, ad erogare alla vigilia di Natale del 2008 un pacchetto di fondi da 13,4 miliardi di dollari per General Motors e Chrysler. I soldi, che venivano dal programma Tarp, permisero ai due gruppi – sull’orlo del fallimento – di resistere fino al passaggio delle consegne con Obama; fu poi quest’ultimo a gestire, tra il gennaio e l’agosto del 2009, il salvataggio vero e proprio tramite la task force guidata da Steven Rattner.
Il processo fu gestito con relativa rapidità attraverso la procedura del Chapter 11 (una sorta di amministrazione controllata) che vide la creazione di due bad company e la cessione delle attività "buone". L’amministrazione Obama assunse direttamente il controllo di General Motors, con una quota di capitale del 60,8%; in Chrysler prese invece una quota di minoranza (a fianco del Governo canadese), con il resto ceduto a Fiat e al fondo sanitario Veba (gestito dal sindacato Usa Uaw).
All’epoca della prima erogazione di fondi da parte di Bush, l’amministrazione aveva stimato che il fallimento di Gm e Chrysler avrebbe potuto costare fino a 1 milione di posti di lavoro e un punto di Pil in meno. Il salvataggio delle due aziende e di Gmac, la finanziaria di Gm, è costato al contribuente Usa circa 81 miliardi di dollari di cui – secondo le stime più recenti – circa metà sono stati finora recuperati; Washington ha ancora in portafoglio una quota del 26% di Gm che, ai prezzi attuali di Borsa, vale 13 miliardi. Complessivamente, l’ultimo rapporto del Congresso sui salvataggi (che risale all’anno scorso) stimava in oltre 20 miliardi la perdita complessiva sull’operazione.
È proprio su questa perdita che si sono appuntate le maggiori critiche dei repubblicani, secondo i quali Obama avrebbe dovuto lasciar fallire Gm e Chrysler, lasciando libero gioco alle forze di mercato. Lo stesso Romney, che pure è nato a Detroit e il cui padre era stato governatore del Michigan, era fin da allora allineato su questa posizione: «Let Detroit go bankrupt».
Nelle ultime settimane della campagna 2012 Romney ha scelto un’altra linea di attacco a Obama, accusandolo di aver "svenduto" la Chrysler agli italiani «che ora vogliono spostare in Cina la produzione della Jeep» (quest’ultima ha in Ohio, Stato chiave per l’elezione, uno dei maggiori stabilimenti Usa). A respingere le accuse è sceso in campo personalmente Sergio Marchionne, con una lettera ai dipendenti Chrysler in cui assicura che «la produzione Jeep non verrà spostata dagli Usa alla Cina». Una cosa è certa: dal punto di vista industriale, il salvataggio è stato un indubbio successo. Gm e Chrysler sono tornate entrambe in attivo approfittando della ripresa del mercato americano dell’auto; Chrysler, in particolare, è adesso la principale fonte di profitti del gruppo Fiat (2,6 miliardi su 2,8 nei primi 9 mesi del 2012).