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 2012  novembre 07 Mercoledì calendario

UN DEBUTTANTE A NEW YORK


[Jovanotti]

Intervistare di persona, un dromomaniaco non è molto difficile: basta fermarsi in un punto e prima o poi lui di lì passa di certo. Così sarebbe stato anche con Jovanotti, e anche in una fase acuta della sua dromomania, ora che va e viene e poi va di nuovo e però poi riviene – su e giù con l’America. Il problema è che sono dromomaniaco anch’io, seppure con cabotaggi di minore portata, la qual cosa rendeva molto complicato calcolare l’algoritmo che permettesse un incontro fisico in qualche luogo. Ecco dunque che è tornato buono il buon vecchio carteggio di una volta accelerato dall’ormai buon vecchio anch’esso correio do ciberespaço, l’e-mail. Ecco dunque il risultato di una corrispondenza elettronica durata un mese a cavallo di molti posti diversi – alcuni menzionati, altri no –, al termine della quale, personalmente, Jovanotti mi sembra di averlo seduto qui vicino.

Ciao, Lorenzo, ho seguito il tuo tour americano su Twitter, e mi sono fatto l’idea (peraltro confermata dalla tua intervista a Repubblica) che tu l’abbia affrontato con l’entusiasmo di un outsider che approda nella terra promessa. E la prima domanda allora è: ma è davvero possibile, semplicemente cambiando suolo, cambiare identità? Oppure – meglio: l’identità di una persona famosa riesce a non strutturarsi intorno alla sua fama?

Ciao Sandro! Sono a Linz, in Austria, in aeroporto, Wi-Fi libero e gratis, è sempre un piacere, come trovare una di quelle fontanelle romane dove l’acqua scorre sempre fresca. Sono qui perché in questi giorni c’è un festival di arte elettronica e sono venuto a vedere se c’è qualche nuovo software o qualche artista da coinvolgere per i visual dei concerti dell’estate 2013, negli stadi italiani. Sarà la prima volta che annuncio gli stadi: San Siro, Olimpico – quelli grossi, per intenderci. Ieri c’era un esperimento di pittura fatta col pensiero, Brain Painting. Uno scienziato/artista si è messo un caschetto pieno di cavi elettrici e solo con il pensiero avrebbe dovuto realizzare figure su un monitor. Abbiamo aspettato un’oretta tra chiacchiere di spiegazione e preparativi, poi però non è riuscito a tracciare nemmeno una riga, niente, schermo bianco. Si è scusato, ha fatto vedere dipinti fatti in passato, macchie rosse e gialle tipo Jackson Pollock minimale, e anche uno della mattina stessa, ma con la gente lì non ci riusciva, mancava la concentrazione. E però la strada è aperta, tra non molto suoneremo col pensiero, dipingeremo, apriremo porte e cambieremo canale alla TV. Meno male. Non ho visto cose che mi hanno illuminato, a parte un robot emotivo, una specie di bambino di gomma che lo prendi in braccio e lui ti abbraccia come un figlioletto, si stringe a tè, ti guarda negli occhi, appoggia la testa al tuo petto e si addormenta. Spaventosissimo, anche perché, essendo un prototipo, era nudo, di gomma bianca, senza mani e piedi e capelli. Rispetto all’America è vero, l’entusiasmo è quello dell’outsider, ma è lo stesso che cerco di cacciar fuori sempre quando faccio una cosa; non è possibile per me fare in nessun altro modo se non andare a cercare una qualche forma di entusiasmo – anche a costo di tirarlo fuori dalla punta dei piedi. La Terra Promessa è, per l’appunto, promessa, e alle promesse bisogna essenzialmente crederci. Senza che debbano per forza avverarsi – è il crederci che le rende promesse, no? Io non voglio cambiare identità, io voglio far rimbalzare la mia identità su tutti i muri che posso, se posso. Il 27 settembre faccio 46 anni, un’età che non so bene maneggiare: me la rigiro tra le mani e non so che farmene, perché tu sei uno scrittore e nonostante tu non indossi il caschetto con i cavi il tuo lavoro lo fai con la mente, mentre io ci metto sempre dentro una cosa atletica, se sto fermo cinque minuti mi si informicola subito tutto. Voglio gettare via un po’ di zavorra, vorrei trovare spazi di crescita. "Crescita" è la parola che si sente dire sempre, al TG, dai banchieri, dai politici, e se secondo me il concetto di "decrescita felice" è una roba da matti che non ha senso, va anche capito cosa vuol dire crescita – e come si applica questa parola a un essere umano di 46 anni, per l’appunto. Il mio sospetto è che crescere in una cosa piccola è meglio che barcamenarsi a gestire una cosa grossa, dal punto di vista dell’energia vitale, e della salute, in senso lato. Comunque ora ti saluto, che mi parte l’aereo. A dopo.

Eccomi sono arrivato a casa, a Cortona. Sabato partiamo per NY, manca meno di una settimana, è un vero trasloco – temporaneo, ma pur sempre un trasloco. Qui lascio il mio vecchio, il mio studio, la mia roba, un po’ di groppo in gola lo avverto. Che ci vado a fare? Ho preso un treno in corsa, e nemmeno un treno vero ma un trenino locale, che non so nemmeno dove porta, però è passato e ci sono salito con tutta la famiglia. Mi hanno pubblicato un disco negli Usa e mi hanno chiesto di fare dei concerti, come un debuttante, che poi è proprio quello che sono laggiù, un debuttante al primo disco. L’identità, tu mi chiedi dell’identità. Non so risponderti, la tiro per le lunghe perché non so cosa dire sull’identità. So che la vita è un mistero un casino un labirinto un diamante un albero, questo lo so, e so anche che c’è un sacco di dolore in giro, dappertutto, e a me pare di essere un salmone, uno che risale la corrente, da sempre – in modo però sempre goffo, quindi non un salmone vero. Ho nel cuore un fuoco che brucia e perché non divampi devo muovermi, non posso fermarmi. Comincia a esserci parecchio passato con il quale avere a che fare e questa cosa mi appesantisce lo sguardo, mi fa uscire lacrime all’improvviso, invade di malinconia certe giornate a sorpresa e non posso e non voglio restare qui senza reagire, perché so cosa mi aspetta se non reagisco – lo so, l’ho visto, lo vedo. Nella mia storia familiare ci sono due linee, una di tristezza e una di allegria, intrecciate come la doppia elica del Dna, e quel la della tristezza è come gli occhi scuri, tende a prevalere nella trasmissione ereditaria, quindi io faccio resistenza e mi tengo in movimento, cerco spazi di crescita perché non si creino pozzanghere di acqua stagnante, mai. Celebra la vita, mi dice una voce interiore, da sempre. Le cose vanno cercate: no input no output, diceva Joe Strummer.

Ci siamo, Lorenzo, il dolore. Ci sei arrivato subito, e da solo, tramite la domanda sull’identità. Scommetto che ci saresti arrivato per qualsiasi altra strada. È un tema che mi interessa molto mi interessa capire perché il dolore, in questi nostri tempi, venga considerato cosi inutile da non saper cosa farsene. Io sapevo che tu sei un’eccezione, lo sapevo da quando hai detto una cosa che non dimenticherò mai. Stavi promuovendo Safari, se non sbaglio, e avevi appena subito il lutto terrificante di perdere un fratello. Dicesti una cosa tipo: "È un dolore atroce, tremendo: spero che non se ne vada mai". Sarà che in quegli stessi giorni avevo subito un lutto anch’io, ma quelle parole mi hanno illuminato. È evidente che tu sei uno che sa cosa farsene, del dolore. È la cosa più importante che puoi insegnare ai tuoi fan, a serbare il dolore, a viverlo, a non far di tutto per sbarazzarsene. Parlami ancora del dolore, per favore. Di come hai fatto a non trasformarlo in una scusa per mollare...

Siamo a New York, Sandro, arrivati ieri, per fare su e giù dall’Italia per un po’. Scombussolato, elettrico, preoccupato, contento, sensi di colpa, voglia di spaccare, batticuore ecc ecc. Mi sento addosso i sogni di tutta la mia stirpe, che non era mai veramente partito nessuno, ma in tanti l’avevano desiderato. Il dolore centra, perché è come dici tu, perché sono tempi in cui pare così inutile da non saper cosa farsene. Oppure viene esibito, che è un brutto modo per farne qualcosa, credo. Gli applausi ai funerali non mi piacciono. E come fare una foto per smorzare un’emozione. Il silenzio o la musica sì, gli applausi no – quelli coprono il dolore, lo buttano sotto al tappeto. Mi viene in mente quella legge della fisica che si studia al liceo: "riceve una spinta di forza uguale e contraria". Il dolore è. Non solo c’è ma è, perché si trasforma in vita. L’unica cosa che mi ha mandato avanti in questi anni è l’idea di trasformare il dolore in una forza uguale e contraria – e anche se non potrà mai essere uguale, che almeno sia contraria. Quando se n’è andato mio fratello Umberto, io ho preso l’unica decisione possibile: vivere il doppio. Per questo ora sono a NY con la mia famiglia a tentare una carta assurda, quella di fare il mio lavoro in una terra che ha bisogno di tutto meno che di musica e di entertainers, che non sanno dove metterli da quanti ne hanno. Molto più bravi di me, che cantano in perfetto inglese. Sono più bravi di me, è vero, ma non sono me, e questo dal mio punto di vista fa la differenza. Potrei dire "un grande passo per un uomo, neanche un millimetro per l’umanità", però io all’umanità non posso che offrire il mio passo — e che sia il più lungo della gamba però, sennò non c’è gusto. Ti ricordi l’inizio di Cent’anni di solitudine quando a Macondo non era ancora mai morto nessuno? Poi comincia la storia, quando qualcuno va sottoterra si può dire che l’avventura ha davvero inizio. Oh, mi suonano, devo scendere. A domani!

Ciao Veronesi, sono in un baretto del Lower East Side dove fanno un caffè come a piace a me, il tazzone da mezzo litro di acqua nera. Questa città era nel mio destino, visto che ho sempre preferito il beverone bollente che servono da queste parti all’espresso. Sbagliando, lo so. Ma è una questione di quantità, magari la vecchiaia m’insegnerà e io imparerò, ma la quantità mi attrae, l’abbondanza è magnetica per me. L’altro giorno prima di partire ho fatto due cose: una delle due è stata infilare il doppio dvd di Pinocchio di Comencini dentro il lettore e rivederlo tutto dall’inizio alla fine. È il mio libro sapienzale per immagini, io lì ritrovo intatta la mia infanzia, preciso come entrare in una macchina del tempo. Sono con la mia mamma e i miei fratelli in quella che noi chiamavamo "l’anticucina", con la TV accesa dopo cena, il babbo è fuori perché la sera usciva sempre, per fare lavoretti che arrotondavano lo stipendio o anche per fare due chiacchiere al bar sotto casa.
Pinocchio di Comencini, dicevo, quella tensione tra povertà e abbondanza senza la parte in mezzo; quel film, ancora più del libro che per me è comunque il più grande romanzo italiano di tutti i tempi, è la mia mitologia personale. Mi identificavo totalmente con il ragazzino che faceva Pinocchio, Andrea Balestri, il modo in cui correva, guardava le cose, prendeva decisioni sempre combattuto tra andare e restare, andare e restare – ma poi andava. Should I stay or should I go? Risposta: I must go. In quel racconto c’è la mia idea di abbondanza, che non è altro che la possibilità di una scelta continua. È a forza di scegliere che Pinocchio diventa un bambino in carne e ossa. E nel film di Comencini lui diventa un bambino vero ogni volta che riconosce il dolore, dentro di sé o negli altri.

È vero (ciao Lorenzo), quella trovata di farlo diventare bambino nel dolore era un colpo di genio – oltre che un ottimo escamotage per utilizzare un attore in carne e ossa e non un muppet. Sull’abbondanza, ricordo il grido con cui Frank Zappa cominciò il concerto che andai a vedere a Pistoia, nel 1982: "Abundanzia!". Detto da persone cosi, è vero, diventa un manifesto di poetica, e da allora io tengo sopra alla scrivania una foto dello zio Frank che fa le corna, sulla quale ho scritto quello che Billy Wilder aveva scritto sulla foto di Lubitsch: "Pensa sempre a come l’avrei fatto io". A te capita qualcosa del genere o no? Ce l’hai qualcuno a cui pensare sempre – e soprattutto, mentre fai una cosa, pensare a come l’avrebbe fatta lui?


Se "penso come l’avrebbe fatta lui", non so mai chi è lui, cambia sempre, come una chimera, non ce n’è mai uno che funziona da solo. Ho il problema, e con l’età tende ad aggravarsi, che mi piace tutto, non riesco a procedere per esclusione ma per inclusione. Per esempio, se ho bisogno di sbloccare il mio spirito, ascolto Miles Davis elettrico, quello di On the corner, quando si era messo con la regina del funk, ma quell’ascolto può condurmi senza problemi a will.i.am (quello dei Black Eyed Peas) o alla cumbia tradizionale di Barranquilla, passando per Roberto Murolo. È la sindrome di Frankenstein, a volte mi accorgo di essere un mostro, un uomo senza un centro di gravità, per questo mi piace cantare l’amore. Mi piace cantare l’amore perché fatico a pensarlo – pensarlo è frustrante e tira in ballo la responsabilità, cantarlo è liberatorio, e mi riconcilia con il caos che ho dentro. All’inizio era il ritmo ad aiutarmi, e ancora oggi il ritmo funziona per me come un binario che ristabilisce una direzione.

Questa dell’“over inclusion" è un po’ la sindrome del nostro tempo, mi sa. Difficile trovare qualcuno che ne sia immune. Forse è anche per questo – azzardo – che hai tutto questo successo da 25 anni pur cambiando così tanto da un disco all’altro. Perché è nella struttura mentale del pubblico, ormai, almeno quello dell’arte popolare, il fatto di non poter eliminare, ma soltanto aggiungere. Così, tu finisci per essere un grumo di talento al servizio di questa depressione entropica collettiva, un fratello più temerario che se non aiuta a scegliere, aiuta almeno ad accettare. Altrimenti, caro Lorenzo, è difficile spiegarsi che tu riesca a piacere con pezzi così diversi tra loro: disimpegnati come Ciao mamma, d’amore puro come Una storia d’amore, schiettamente autobiografici come Tanto e politici come Date al diavolo un bambino per cena. E a proposito di questo pezzo, che secondo me continua a essere il tuo vero manifesto poetico (anche le righe di questa nostra corrispondenza sembrano confermarlo: c’è Pinocchio, c’è il dolore, c’è l’abbondanza, il cambiamento, la generosità, e c’è perfino una specie di predizione del tuo attuale passaggio newyorkese, quando dici "io sono un etrusco, sono americano, vado verso ovest con il cuore in mano"), permettimi una domanda forse un po’ indiscreta, o forse inutile perché magari le hai già risposto mille volte e io semplicemente non l’ho mai saputo: cos’è stato "quell’incidente" in cui "hai avuto culo"? Son momenti importantissimi, gli incidenti, nella vita delle persone...

Ho iniziato questa mail con il racconto di "quell’incidente" e poi a metà frase ho spinto a raffica la freccina che cancella perché mi pigliava malissimo, non perché si debba rimuovere, ma perché di culo non si scrive, che magari è stato un miracolo, vai a saperlo, o come dicono a volte i vecchi "in quel momento qualcuno ha pensato che non era il momento". Però è vero che gli incidenti sono importanti, ma vanno lasciati lì dove sono, ci pensano loro a lavorarti dentro, e uno pensa a come trasformarli in qualcosa, che anche a scriverli, a meno che tu non sia uno scrittore, si rischia di fare del revisionismo personale e su queste cose è meglio stare attenti. Comunque a crescere in una famiglia numerosa gli incidenti sono cose che ci stanno, e in casa mia non si finiva di fare firme e disegnini su un gesso che ne arrivava uno bianco immacolato intorno all’arto di qualcun’altro. Adesso su quei gessi di plastica si scrive peggio, ma pare che curino meglio, però quella volta della canzone non mi sono fatto proprio niente, solo che ancora non so come è stato possibile che io non mi sia fatto niente. Mi fai un regalo a citare "un bimbo per cena", perché è vero che quella canzone è la mia radiografia di tutto il corpo anima compresa e c’è molto divertimento dentro, il gioco, e io ci tengo al gioco, che sia sempre molto chiaro. Tu stai scrivendo un libro nuovo? E un romanzo? Sono molto curioso, lo prenderò in e-book, anzi lo prendo anche di carta, così mi ci farai una dedica. Come si dedicano gli e-book? ecco un problema con il quale non avevi mai dovuto confrontarti, vero? Nuovi problemi, nuove soluzioni! Vale un po’ per tutto, ed è giusto così. Le cose cambiano, il desiderio mi pare che resti sempre una forza irresistibile. La mia testa è un frullatore vero, a volte mi pesa non aver fatto nei primi vent’anni della mia vita le cose che danno le basi. Sono inaffidabile, artisticamente, e lotto per essere credibile a me stesso, ma è una battaglia persa. Non riuscendo ad essere credibile, sono 25 anni che provo ad essere almeno INCREDIBILE! T’è piaciuta questa? Certe sere sono un po’ stanco di essere Jovanotti e vorrei vedere com’è essere tutta un’altra cosa e, siccome non è possibile, cerco di scrivere una canzone senza essere Jovanotti, e così in questi anni ho finito per scoprire delle cose che non sapevo, e alla fine della strada ero sempre un po’ più Jovanotti di prima.
Mi dici un romanzo che devo assolutamente leggere? Quello che ti ha spinto a essere uno scrittore?

La città e i cani di Mario Vargas Llosa. Ma mi sa che l’hai letto.

30 settembre 2012, ore 20:49
Ciao Sandro! Volevo solo dirti che è domenica, sono stato a mangiare in un ristorante dove l’altro giorno, passando, ho detto, qui una volta ci devo venire a pranzo. Sai chi c’era seduto al tavolo accanto al nostro? Mario Vargas Llosa! Gli ho stretto la mano anche a nome tuo. Ti saluta. Ciao, Lorenzo.