Gaia Piccardi, Corriere della Sera 07/11/2012, 7 novembre 2012
GLI STRESSATI E GLI IRRIDUCIBILI DEL CALCIO. LE DUE FACCE DELLO STESSO PALLONE
Non siamo tutti uguali, per fortuna...». Gli occhi spiritati dell’uomo che fu posseduto dal calcio tornarono sulla terra dopo l’esperienza ansiogena sulla panchina del Parma. Febbraio 2001. Doveva essere un ritorno a casa, onusto dei fasti milanisti; si rivelò un capolinea con il batticuore. «Non si può morire di stress né di calcio» ricorda Arrigo Sacchi a proposito di quei 23 lunghissimi giorni durante i quali capì che, a 54 anni, dopo aver terremotato il calcio italiano, stava molto meglio lontano dall’epicentro. Walter Mazzarri ieri è tornato ad allenare il Napoli a Castelvolturno. Una notte di ricovero alla clinica Montevergine di Mercogliano, e nessuna voglia di parlare. Quello che doveva e voleva dire, era già stato detto: «A fine stagione potrei anche stare fermo». Come Pep Guardiola dopo la grande abbuffata a Barcellona, Luis Enrique prosciugato dalle aspettative della Roma, Francesco Guidolin da Castelfranco Veneto, che il venerdì sera comincia a non dormire più e la domenica suda freddo al capezzale della sua Udinese: «Mi sento sempre più svuotato, forse mi serve un anno sabbatico...».
L’allenatore sul lettino. E il pallone in analisi. Sostiene Sacchi che non dipende dal logorio del calcio moderno. «Venticinque anni fa, quando arrivai al Milan, era già tutto stressante e ansiogeno. In Italia, da questo punto di vista, siamo campioni del mondo: il calcio è considerato rivendicazione sociale, metodo e merito sono totalmente disconosciuti. Conta solo il risultato. Il campionato più stressante in assoluto. Quando hai allenato da noi, sei vaccinato per allenare ovunque. Napoli piazza difficile? A Igea Marina sarebbe la stessa cosa... Alla base del risultato ad ogni costo ci sono maleducazione, mancanza di cultura sportiva e ignoranza. Poi non siamo tutti uguali: c’è chi è più sensibile e chi vive la pressione in modo più rilassato e meno ossessivo». Si spiega così, forse, l’elisir di lunga vita di due totem conficcati con forza dentro il calcio europeo. Alexander Chapman Ferguson da Glasgow e Giovanni Luciano Giuseppe Trapattoni da Cusano Milanino, separati alla nascita, 143 anni in due, una vita nel pallone. Ogni (rara) volta che hanno accennato all’idea di smettere Cathy e la signora Paola, le vedove bianche sposate con il calcio, li hanno rispediti in panca con un calcio nel sedere. Impossibile immaginare Fergie e il Trap («Lo stress sta alla Breda, non in campo...») lontano dal profumo di uno schema, dal bagliore di una sfida, dal fragore di un gol. L’altra faccia degli stressati, sono gli irriducibili. «Non siamo tutti uguali...» è il mantra dell’Arrigo. E Arsene Wenger (16 anni all’Arsenal) e Josè Mourinho (quasi cinquant’anni sulle barricate: il 26 gennaio 2013, auguri) sembrano destinati a raccogliere l’eredità dei matusalemme a cui il calcio allunga la vita. Essere o non essere? Gerovital o stress? «Lo stress non esiste: esiste un’ansia da prestazione mista a una paura molto profonda di non essere all’altezza — spiega Rosa Maria Vijogini, life coach e fondatrice di Cuore di Smeraldo —, gli stati ansiogeni sono il prodotto di un conflitto spietato tra la struttura della personalità e l’essere». Esiste un modo di primeggiare sano? «Creare per gioia e per passione, seguendo la propria anima e non il cervello o la società. Però la magia della creazione ha bisogno di molto coraggio. Il calcio è una delle identificazioni più forti dell’individuo, un gioco fisico che produce l’illusione di una conquista in assenza di sforzo. Il gol è una gratificazione dell’ego».
Gioco, segno, alleno, ergo sum.
Gaia Piccardi