Giovanni Belardelli, Corriere della Sera 07/11/2012, 7 novembre 2012
«BADOGLIO!», IL RITORNO DELL’INSULTO FASCISTA
In chi ha letto le cronache o visto il filmato della contestazione subita dal presidente della Camera Fini ai funerali di Pino Rauti non può non aver suscitato una notevole impressione il grido «Badoglio!».
Un nome e un grido utilizzati in quel frangente come il peggiore degli insulti; perciò un grido che ci arriva direttamente, per così dire, dalla prima metà dell’altro secolo quando, dopo il 25 luglio 1943, il nuovo presidente del Consiglio Badoglio fu appunto considerato da chi restava fedele a Mussolini come il traditore per antonomasia. Per di più fu il governo Badoglio a siglare l’armistizio reso noto l’8 settembre 1943, una «resa» che per la destra neofascista ha sempre rappresentato una colpa incancellabile. In realtà la figura del generale Badoglio fu più complessa e significativa di come l’insulto di matrice repubblichina risuonato l’altro ieri non lasci pensare. Lo fu in primo luogo perché la sua carriera può essere considerata rappresentativa di tante carriere italiane nelle quali, più che i meriti effettivi, contano le relazioni e le capacità manovriere, magari da un regime all’altro.
Fu per questo che nel 1943 l’incarico di formare il nuovo governo dato dal re a Badoglio sintetizzava bene l’ambiguità della situazione italiana: a capo del primo governo antifascista andava colui che solo pochi anni prima era stato il protagonista della conquista dell’Etiopia. Quanto al secondo tradimento che la destra neofascista ha sempre imputato a Badoglio — quello legato all’8 settembre — come è noto furono ben altre allora le colpe del generale, a cominciare dalla totale incapacità a organizzare (e anzi, prima ancora, a concepire) una qualche difesa del Paese e della sua capitale di fronte alla probabilissima reazione tedesca.
Ma di tutto questo, cioè delle vere responsabilità storiche del generale, della sua clamorosa inadeguatezza in un momento drammaticamente decisivo della storia d’Italia, a chi ha gridato «Badoglio!» deve essere interessato ben poco. Per costoro Badoglio rappresenta la figura del traditore, un po’ come la testa di turco utilizzata nei tornei medievali. E il «Badoglio!» risuonato l’altro giorno si potrebbe archiviare come nulla più che il riflesso condizionato di qualche sparuto gruppo di nostalgici, non fosse che per un dettaglio. Mi riferisco al fatto che a quell’insulto si sono di fatto associati, con le loro dichiarazioni ambiguamente comprensive della gazzarra anti-finiana, anche dei rappresentanti di una destra ex An che, almeno in teoria, nulla dovrebbe più avere a che fare con gli spettri di Salò. È il caso ad esempio di Daniela Santanchè e Francesco Storace i quali, piuttosto che stigmatizzare l’aggressione e gli insulti (tra i quali un indecente «Vai in sinagoga!»), hanno giudicato la partecipazione di Fini al funerale una «vergogna» (la prima) e una «provocazione» (il secondo).
Si è trattato di una reazione che conferma quello che è stato, nel corso della Seconda Repubblica, uno dei mai superati limiti della destra postfascista: una destra traghettata da Fini verso una nuova formazione pienamente democratica ma abitata, nella cultura di alcuni suoi esponenti, da idee, slogan e immagini del nemico che non si saprebbe come definire se non fascisti.
Anche per questo, cioè per la sostanziale simpatia che ha destato in alcuni esponenti politici della destra, la contestazione avvenuta ai funerali dell’onorevole Rauti non può essere purtroppo liquidata come un brutto spettacolo messo in scena da quattro nostalgici di Salò.
Giovanni Belardelli