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 2012  novembre 04 Domenica calendario

CAVOLATE E LECCATE I GIORNALISTI ITALIANI SI SCHIANTANO IN USA

È che Twitter ti frega. Sono le 20.54 ora italiana di venerdì quando Gianni Riotta, navigato columnist della Stampa ed ex direttore del Sole 24 Ore, affida ai suoi numerosi follower un pensiero forte sulla maratona di New York, in quel momento ancora in calendario. «Chi non capisce perché New York ha confermato la Maratona malgrado sia ancora nel caos per l’uragano Sandy non capisce New York». Guia Soncini, al solito felicemente spietata, sparge acido: «Troviamo qualcuno che riferisca questo tuo messaggio al Nypost, presto», riferendosi al quotidiano cittadino che aveva duramente attaccato Bloomberg per aver acceso i generatori per i maratoneti mentre interi quartieri restavano senza elettricità né riscaldamento. È davvero infelice, a questo punto, il tempismo con cui il sindaco, schiacciato tra esigenze degli sponsor e rabbia dei cittadini (e di molti atleti), decide clamorosamente di cancellare l’evento. Tanto infelice da indurre un sillogismo che sarebbe ingeneroso svolgere.
Ma in fondo l’America è grande e funziona così: ognuno ci vede quello che vuole e ci proietta quello che desidera, soprattutto a una manciata di ore da un voto che attira il mondo, lo cambia, ne catalizza emozioni, aspettative, e una certa dose di puttanate qua e là. Sempre Riotta sulla Stampa di ieri ha fornito una lucida analisi del rush finale della campagna elettorale che potrebbe riconfermare Barack Obama alla Casa Bianca. Citando «i sondaggi di Nat (è Nate, ndr) Silver, il sito realclearpolitics», probabilmente intende fivethirtyeight, cioè il blog del New York Times (e di Silver appunto) che però di realclear è uno dei più tosti e autorevoli rivali. E quell’8% del tasso di disoccupazione «che, per tradizione, elimina i presidenti» è forse piuttosto il 7,2%, ovvero la soglia massima che consentì a Reagan di ottenere appunto la rielezione. Sopra questa, mai nessuno ce l’ha fatta a ottenere il secondo mandato consecutivo. Ma sono minuzie, come quando in un’intervista a John Elkann sul Sole ribaltò nome e cognome dell’obamiano Rahm Emanuel trasformandolo in Emmanuel Rahm: e in questo pezzo c’è sicuramente di ben peggio.
È l’America che gioca questi scherzi: larga abbastanza per vederci quello che vuoi, trovare conferme alle proprie idee, e in fondo anche ai postumi della colossale sbronza ideologica per il messia Obama di quattro anni fa, al tempo delle lontanissime elezioni tra il demiurgo Barack e quell’altro. E così capita di leggere nel pezzo di una delle firme di punta del Corriere, Aldo Cazzullo da Miami: «Ai comizi di Romney [...] non si beve Coca light ma un intruglio dolciastro che si chiama Dr Pepper (non a caso i democratici spesso sono magri e i repubblicani grassi)». Ciccioni maledetti.
Per Vittorio Zucconi, storica firma di cose Usa per Repubblica, l’uragano Sandy scatena narrative spettacolari come sempre, ma ancor più suggestive se messe a confronto con quelle di Katrina. A fine agosto del 2005 scriveva della «vendetta dell’acqua sugli uomini», di un Bush che si limitava a «qualche preghiera e qualche buon consiglio da mamma»: «cerotti, palliativi, pannicelli» distribuiti dall’«asciuttissima Arizona». E l’Obama di Sandy? «Barack prega nei sotterranei della Casa Bianca», ma è tutta un’altra orazione: «“Tutto quello che vi serve, avrete”, rassicura i governatori», e soprattutto l’impermeabile «è punteggiato di gocce grosse». Quattro anni dopo siamo lì: e se Beppe Severgnini commentava con impercettibile bias: «Finché non vedo un nero sveglio alla Casa Bianca, continuerò a pensare che un bianco mediocre possa farcela» (Corriere, 23 ottobre 2008), oggi lo troviamo su La7 nelle repliche di «Atlantico-Pacifico», allegro coast-to-coast in cui si stupisce sinceramente che esistano persone di colore che votano repubblicano.
Ecco, quando Romney sventola lo spauracchio di finire come l’Italia, è una minaccia seria.