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 2012  novembre 07 Mercoledì calendario

CAPOLAVORO RITROVATO

[Restaurato e riproposto nelle originarie tre ore il film di Marcel Carné considerato la migliore opera nella storia del cinema francese. E a Parigi vanno in mostra la sceneggiatura e i disegni di Prévert] –
Il miglior film francese di tutti i tempi, era stato il verdetto di critici e storici riuniti nel 1995 per il centenario del cinema. Giudizio ribadito da un cinefilo onnivoro come Woody Allen, quando l’ha scoperto a Los Angeles nella versione appena restaurata: «È il più bel film che abbia mai visto in tutta la mia vita». Eppure
Les enfants du paradis, evento di ritorno a 67 anni dalla “prima” trionfale al Palais de Chaillot il 9 marzo 1945, divenuto monumento nei lunghi, travagliatissimi mesi di produzione e poi nella memoria del pubblico, è nato un po’ per caso. Fortuito il protagonista, Jean-Louis Barrault, che proprio alla vigilia ha rischiato d’essere sostituito da uno sconosciuto di talento, un certo Jacques Tati, che il regista Marcel Carné aveva scovato con i suoi numeri di mimo in un music-hall di provincia. Era stato proprio Barrault, in un incontro casuale a Nizza, a appassionare Carné con il racconto d’un celebre mimo dell’800, Jean Baptiste Debureau, passato alla posterità per aver ucciso un ubriacone che l’infastidiva.
Nasce così l’idea d’un film che rinverdisca l’era gloriosa del théâtre boulevardiera Parigi, con il confronto tra teatro di pantomima e di parola, chiamando in causa personaggi realmente esistiti, come il mattatore dell’epoca, Frédérick Lemaître (Pierre Brasseur nel film), ammirato da Hugo e Vigny, o Pierre-François Lacenaire, «le dandy du crime», poeta-assassino ghigliottinato nel 1836. Tutto ruoterà attorno all’amour fou del mimo per una specialista della seduzione, interpretata dalla diva del momento, Arletty: passione contrastata dai numerosi rivali e da un angelo del focolare, moglie del mimo, in cui debutta Maria Casarès.
Ma i veri divi, in questo film dalle magiche combinazioni, sono soprattutto dietro le quinte: Jacques Prévert, prima di tutto, che nel corso dello storico sodalizio con Carné, regala al cinema una delle sceneggiature più ardenti e dialoghi d’ironica poesia («Parigi è troppo piccola per quelli che s’amano come noi d’un amore così grande!» o «Se tutti quelli che vivono insieme si amassero, la terra risplenderebbe come un sole»). Per di più, Prévert adorna brogliacci e appunti di battute scherzose e divertenti disegni infantili, ora esposti nella grande mostra alla Cinémathèque Française de Paris, che accompagna fino a gennaio la nuova uscita in sala, e nei cofanetti dvd e blu-ray, del film rimesso a nuovo da un accurato restauro durato mesi nei laboratori dell’ Immagine Ritrovata di Bologna e già festeggiato alla scorsa Cannes: uno choc per il pubblico italiano, che finora ha subito, con il titolo Amanti perduti, la versione dimezzata (dalle tre ore originali ai “regolamentari” 90 minuti).
In mostra a Parigi (e nello splendido catalogo, ricco di testimonianze e riproduzioni, oltre che in due preziosissimi volumi Textuel, Le cinéma dessinéde Jacques Prévert e L’amitié selon Prévert), anche i bozzetti di scene di Alexander Trauner, che con Léon Barsacq ricostituisce alla perfezione il Boulevard du Crime, quartiere popolare e di spettacolo nella Parigi del 1840, e le partiture originali di Joseph Kosma, altri autori “nascosti”: stavolta, alla lettera, essendo entrambi ebrei, dunque costretti a lavorare in assoluta clandestinità durante l’Occupazione.
Il tourbillon della guerra e l’incombenza nazista trasformano le riprese, iniziate nell’agosto 1943, in avventura tra le più acrobatiche e pesanti nella storia del cinema: due anni di riprese, invece dei quattro mesi previsti, inghiottono l’enormità di 58 milioni di franchi, con stop di tre mesi allo sbarco degli Alleati in Sicilia e defezione dei primi produttori, subito sostituiti da Pathé. Materiali da costruzione di difficile reperimento, pellicola razionata, elettricità intermittente e un milione extra per rimettere in piedi le scene danneggiate da una tempesta. Anche il cast è da trincea: alla disfatta di Vichy, Robert le Vigan, antisemita collaborazionista, se la batte in Germania con Céline per raggiungere Pétain a Sigmaringen, sostituito al volo da Pierre Renoir, fratello di Jean. E il giorno della prima, Arletty — la star — non c’è, perché condannata a 18 mesi d’arresti domiciliari dalla fine delle riprese per l’amorazzo con un ufficiale nazista. Con destino parallelo a Roma città aperta, anch’esso faticosamente covato in tempo di guerra e uscito nel 1945, Les enfants du paradis, di cui Carné ritardò con mille sotterfugi l’uscita perché fosse il primo film del dopoguerra e suo emblematico riscatto, è un grido di liberazione cinematografico. «Contestando l’autorità della famiglia, la persecuzione delle diversità, anche sessuali, e la subordinazione obbligata della donna al mondo maschile, il film disintegra i fondamenti stessi dell’ordine sociale di Vichy», annota Bernard Landry, primo giornalista a scrivere di Carné nel 1952. Non a caso, François Truffaut, dopo avere bistrattato Carné negli anni giovanili, gli confesserà nell’84, alla vigilia della morte: «Rinuncerei a tutti i miei 23 film pur di aver realizzato Les enfants du paradis».