Raffaello Masci, La Stampa 07/11/2012, 7 novembre 2012
SEMPRE PIÙ MOSTRE MA QUANTE SONO INUTILI?
[Ogni tre quarti d’ora si organizza un’inaugurazione Migliaia di micro-eventi, spesso costosi e disertati dai visitatori] –
Ogni tre quarti d’ora c’è un assessore che taglia il nastro di inaugurazione di una mostra. Ne allestiamo 11 mila l’anno in quasi 4 mila sedi diverse, e spendiamo per questo quasi 2 miliardi di euro. Non invano, però, perché a visitarle vanno 40 milioni di italiani, il doppio di quelli che frequentano le partite di calcio negli stadi.
La Fondazione di Venezia e la Fondazione Florens hanno commissionato, a questo proposito, una ricerca a Guido Guerzoni, dell’Università Bocconi. Lo studio rileva la proliferazione delle mostre nei due anni che mette a confronto, il 2009 (in cui le esposizioni sono state 9.419) e il 2011 (in cui si sono ridotte a 6.120); a questi numeri va aggiunto almeno un altro 10% di iniziative non censite che portano, per l’appunto, il totale a circa 11 mila rassegne sparse per lo stivale. I numeri ci dicono che la spending review ha colpito anche questo settore e con l’avanzare della crisi le mostre si sono ristrette. La ricerca rileva anche che gli allestimenti prosperano soprattutto al Nord (in ragione del 60%) e poi nelle grandi città (Roma, Milano, Torino, Firenze). Si evince, infine, che oltre che nei 4.120 musei italiani si espone anche in altri 3.876 spazi di varia natura, adatti o meno alla funzione.
A questo punto, per capire il senso di questi numeri, occorre guardare dentro al fenomeno: uno pensa alla parola mostra e gli viene in mente Caravaggio alle scuderie del Quirinale o Botticelli a Palazzo Strozzi, o Picasso a Palazzo Reale. Sì, certo, ci sono questi grandi eventi nei templi dell’arte, ma ci sono - e parliamo della stragrande maggioranza dei casi - anche le mostre piccole e piccolissime, disseminate in almeno la metà degli 8 mila comuni italiani. E anche qui ci aiutano le statistiche della ricerca del professor Guerzoni: su 100 mostre, 66,36 (più di due terzi) riguardano l’arte contemporanea, definizione dietro la quale non vanno ricercate solo le avanguardie della sperimentazione, ma più semplicemente le tele degli artisti della domenica, con le loro marine, i loro paesaggi, le loro nature morte, disposte in bella evidenza sotto i rispettivi campanili. E qui si screma subito tra le roboanti mostre nazionali e le piccole rassegne locali, gloria degli assessori e dei sindaci, tant’è che se andiamo a osservare la frequenza dei vernissage, scopriamo un loro affollamento sotto elezioni.
Quanto alla molteplicità degli spazi espositivi, la ricerca rileva che, tolto quel 35% di casi in cui tutto si svolge all’interno di un museo, ci sono le scuole, i padiglioni industriali recuperati, i castelli restaurati, i palazzi antichi rimessi in funzione. Ci sono, cioè, tutti gli immobili sapientemente restituiti al proprio decoro, ma di cui gli enti locali non saprebbero che farsene, e quindi ne approfittano per una mostra che fa tanto cultura ma attira pure la gente, richiamata si diceva - dall’arte contemporanea, in qualunque modo declinata, (66% delle mostre), dalla fotografia (10%), dal design e dall’architettura (4%), dalla documentazione storica specie locale (un altro 4%) e solo in minima parte dall’arte antica (2%) o dall’archeologia (meno dell’1%). In sostanza si fa la mostra per celebrare se stessi e il proprio paese, quando non esplicitamente il sindaco in attesa di secondo mandato.
Ma questa profusione espositiva, oltre a richiamare turisti e visitatori e a promuovere il territorio, ha avuto un altro vantaggio, quello di creare la professione del «curatore». Tant’è che 3.584 giovanotti laureati in archeologia, in lettere, in gestione dei beni culturali, si sono votati a questo nuovo business: non lavorano sempre, non guadagnano molto, si devono occupare di tutto - dall’arte al marketing, dalla comunicazione all’allestimento - ma si sono trovati (e inventati) un mestiere.