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 2012  novembre 07 Mercoledì calendario

Tra le tante sfide che il nuovo presidente degli Stati Uniti dovrà affrontare ce n’è una che questa volta non potrà facilmente essere rinviata al futuro

Tra le tante sfide che il nuovo presidente degli Stati Uniti dovrà affrontare ce n’è una che questa volta non potrà facilmente essere rinviata al futuro. Si tratta di impostare e mettere in pratica una strategia credibile per la riduzione della montagna del debito pubblico americano. Se succede davvero, sarà la prima volta dai tempi di Thomas Jefferson. In America da molti anni si parla di ridurre il debito pubblico. I repubblicani più estremisti — quelli dell’American Enterprise Institute — ne fanno da sempre una battaglia etica contro «decenni di statalismo». Quando però all’inizio degli anni Ottanta il presidente repubblicano Ronald Reagan si trovò a dover rianimare il capitalismo americano fiaccato dall’inflazione e dall’aumento del prezzo del petrolio, non lo fece riducendo il deficit ma aumentando la spesa pubblica per la difesa, aggiungendo una drastica riduzione delle aliquote di imposta, soprattutto sui redditi di impresa. Reagan riuscì a rilanciare la crescita dell’economia americana nella seconda metà del decennio. Ma la quota del deficit sul prodotto interno lordo (Pil) aumentò comunque in pochi anni: dal 2 per cento del 1980 fino al 6 per cento nel 1983. E lì rimase negli anni successivi. Il debito pubblico esplose. L’etica può aspettare se c’è inflazione e la gente è disoccupata. Più pragmaticamente, fu proprio il presidente democratico Bill Clinton che si cimentò con l’impresa di rientrare dal debito reaganiano. Nella seconda metà degli anni Novanta, anche grazie alla rapida crescita dell’economia, ridusse il deficit. Ma riuscì solo a rallentare la crescita del debito, non a diminuirlo. Dal 2001 a oggi, infine, il debito del governo americano è aumentato più che in ogni altro dei decenni precedenti. Guardando a come sono andate le cose nel tempo, sulla riduzione dell’indebitamento in America si sono fatte tante chiacchiere e pochi fatti. Una possibilità, semplicemente, è che gli Stati Uniti possano convivere felicemente con i loro attuali livelli di esposizione. Secondo i calcoli dell’«Economist Intelligence Unit», alla fine del 2012 la parte del debito pubblico americano detenuta dal mercato, cioè da individui, aziende, banche, fondi pensione e di investimento privati, arriverà a 11.360 miliardi di dollari, pari al 73 per cento del Pil degli Stati Uniti. E questo significa che il debito pubblico Usa è il secondo più grande al mondo dopo quello giapponese. Ma il debito americano è grande anche perché l’economia Usa è la maggiore al mondo. E infatti è «soltanto» il 73 per cento del Pil americano, un valore più basso della media calcolata per l’area euro che sfiora il 90 per cento. Confrontare i livelli dell’indebitamento tra Paesi è però un esercizio delicato. Se al debito nei confronti del mercato si aggiunge il cosiddetto debito intragovernativo, cioè i titoli del Tesoro americano detenuti da fondi pubblici che finanziano la Sanità, le pensioni e altre istituzioni non private (più importanti in America che nel resto dei Paesi Ocse), il valore complessivo arriva a superare i 15 mila miliardi di dollari e si avvicina così al 90 per cento del Pil. Il guaio è che 90 è diventato un brutto numero nel dibattito sul debito. In una ricerca ampiamente citata, condotta dall’ex capo economista del Fondo monetario Ken Rogoff e dalla collega Carmen Reinhart della New York University, quella del 90 per cento del rapporto debito pubblico-Pil è stata indicata come la soglia al di sopra della quale le economie non crescono più. In un’economia come quella americana, abituata per decenni a tassi di disoccupazione del 5 per cento con crescita del Pil al 3-4 per cento, un azzeramento dello sviluppo proprio ora che la disoccupazione è ancora all’8 per cento sarebbe socialmente intollerabile. C’è chi ha ricordato a Reinhart e Rogoff che il ragionamento potrebbe essere l’opposto: sono i Paesi incapaci o impossibilitati a crescere a veder salire inesorabilmente il loro rapporto debito-Pil, e non viceversa. Di fatto, però, la «quota 90» è diventata la motivazione principale di chi sostiene che questa volta il nuovo presidente dovrà davvero fare qualcosa per ridurre l’esposizione. Non solo. Ci sono poi ragioni anche più profonde, di scenario, che potrebbero spingere il nuovo presidente in questa direzione. Oggi, quando il Tesoro americano si indebita, lo fa a tassi tedeschi: lo spread tra titoli americani e tedeschi è cioè sostanzialmente zero. È un segno tangibile che i mercati ritengono ancora del tutto affidabile il governo americano e il dollaro. Ma, nel corso del tempo, la domanda di titoli americani potrebbe ridimensionarsi se, sull’altra sponda dell’Oceano Pacifico, la Cina — con il nuovo corso di cui si sa poco se non che continuerà a voler mantenere il controllo sulle proprie attività — muovesse infine nella direzione auspicata da molti in Occidente. E cioè verso una crescita più orientata allo sviluppo dei consumi interni, cosa utile anche per rafforzare il consenso, anziché sulle esportazioni. Una Cina con un minor avanzo della bilancia commerciale avrebbe anche meno bisogno di investire nei titoli del Tesoro Usa i dollari acquisiti con il suo surplus di bilancia commerciale. E il governo americano a quel punto dovrebbe cercare altri clienti per i suoi titoli.