Gianfranco Fabi, Il Sole 24 Ore 6/11/2012, 6 novembre 2012
FORSE OGGI LO STESSO KEYNES NON SAREBBE UN KEYNESIANO
Caro Fabi, quando si parla di ricetta keynesiana per affrontare i problemi economici ci si riferisce principalmente all’utilizzo della spesa pubblica per cercare di superare un momento negativo del ciclo economico. Ma nelle tante opere di un grande economista come John Maynard Keynes non c’è proprio nessun’altra idea? Le politiche di spesa appaiono infatti difficilmente praticabili con gli attuali debiti pubblici, ben oltre il livello di guardia.
Sebastiano Maffei
Gentile lettore,
il grande apporto di Keynes alle politiche economiche va, fortunatamente, ben oltre la semplice sottolineatura dell’importanza della spesa pubblica. Vi sono innumerevoli temi su cui l’analisi dell’economista di Cambridge si è soffermata partendo da quello che è stato il libro, scritto alla fine della Prima guerra mondiale, Le conseguenze economiche della pace in cui, da inglese, criticava fortemente i debiti di guerra imposti alla Germania.
Al di là tuttavia delle teorie economiche, che meriterebbero un ben più ampio approfondimento, ci sono alcuni elementi di metodo che meritano di essere messi in risalto, magari senza dimenticare la sua ispirazione fondamentalmente liberale e il fatto che le sue teorie non possono essere confuse con lo statalismo. Per esempio il suo richiamo alla necessità di una profonda umiltà dell’economista che non può basare le sue teorie su leggi rigide e immutabili e che per questo deve accettare di sottoporre le proprie idee ad un confronto e una discussione continua. Nella prefazione alla sua opera più completa, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta scrive infatti: «È incredibile a quante sciocchezze si possa temporaneamente credere se si pensa per troppo tempo da soli, specialmente in economia dove è spesso impossibile sottoporre le proprie idee ad una prova conclusiva, sia formale, sia sperimentale».
Un richiamo alla discussione e al confronto che si ritrova in tutto il libro e che compare con una severa affermazione nelle ultime righe: «Gli uomini della pratica i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso schiavi di qualche economista defunto». Quasi un monito agli economisti di oggi a considerare le sue teorie, così come ogni altra teoria economica, come qualcosa che ha continuamente bisogno di passare al vaglio con la realtà.
E la realtà è fatta di persone le cui decisioni sono dovute a tanti fattori tra cui “il capriccio, il sentimento, il caso” perché non possono dipendere «da una rigorosa speranza matematica che non ha alcuna base per essere calcolata». E forse si può dire, con un po’ di provocatorio azzardo, che Keynes oggi non sarebbe “keynesiano”, nel senso di come viene intesa tradizionalmente questa qualifica.