Umberto Broccoli, Sette 2/11/2012, 2 novembre 2012
L’AMORE COMINCIAVA A GIRARE DENTRO I JUKE BOX
1958, l’anno dell’inizio del volo, l’anno del volare. È l’anno in cui la Francia è impegnata in Algeria e Charles de Gaulle assume i pieni poteri e nasce in Francia la quinta Repubblica. È l’anno in cui (in Italia) prende sempre più consistenza un “cavallo di razza”, Amintore Fanfani. Anno di elezioni, anno di fatti di cronaca e, come al solito, anno di piccole e grandi cose a segnare la vita quotidiana degli italiani. Si chiudono le “case chiuse”, si parla di divorzio, e le donne italiane sono tutte solidali con Soraya, regina ripudiata. Muore un Papa, Pio XII, Eugenio Pacelli (ancora vivo nei pensieri di tutti, a braccia aperte, quindici anni prima, pregare, per i morti del bombardamento di San Lorenzo a Roma, il 19 luglio 1943) e se ne fa un altro, Giovanni XXIII, il Papa buono, il Papa della carezza ai bambini, data in una sera di ottobre del 1962
1958. Quarto anno della televisione in Italia, anno aperto nel segno della musica e della polemica, legata a Maria Callas: una polemica tutta teatrale, integralmente trasmessa per radio, perché la radio è il primo mezzo di comunicazione. Nonostante la televisione di Lascia o raddoppia?, la radio è il momento di intrattenimento per le famiglie e sono tutti davanti alla radio all’inizio dell’anno, giovedì 2 gennaio 1958. Dal Teatro dell’Opera in Roma c’è l’inaugurazione della stagione lirica alla presenza del capo dello Stato, Giovanni Gronchi. In scena è la Norma, di Bellini. E Norma è Maria Meneghini Callas. Tutti davanti alla radio e per i più facoltosi si faceva largo anche l’alta fedeltà, sottolineata dalla sigla Hi-Fi. Chi aveva un apparecchio del genere aveva speso almeno centoquarantamila lire, quando la media dello stipendio di uno statale era sulle novanta-centomila lire. Quegli apparecchi radiofonici erano completamente differenti dalle radio di qualche decennio prima. Queste, sobrie, spartane, alcune delle quali mostravano in bell’evidenza il fascio littorio sulla mascherina dell’altoparlante. Le altre, le radio moderne, erano anche giradischi con tanto di commutatore di velocità: 16, 33, 45, 78 giri per garantire la possibilità di ascoltare ogni tipo di disco, compresi i microsolco a 78 giri, delicatissimi, fragilissimi. Se cadevano in terra, la musica era finita. Non solo: ma il piatto aveva un dispositivo in grado di impilare uno sull’altro tanti dischi (talvolta fino a dieci) e il pick-up (il braccetto, di plastica simile a un serpente con la testa allargata) automaticamente tornava indietro alla fine di una facciata, permettendo la discesa di un altro disco. Quindi: ore e ore di ascolto, alternativo alla radio. Ore nelle quali si rammendava, si facevano le pulizie di casa, si cucinava, si chiacchierava sommessamente, circondati da voci e note in arrivo da tutto il mondo e filtrate da tre altoparlanti: uno principale sul davanti, gli altri sui lati del mobile di legno lucido.
Le bizze della Callas. Quella sera, quel 2 gennaio 1958 la voce cristallina di Maria Luisa Boncompagni aveva annunciato: «Dal teatro dell’Opera in Roma, alla presenza del signor presidente della Repubblica, inaugurazione della stagione lirica. Trasmettiamo Norma tragedia lirica in quattro atti di Felice Romani. Musica di Vincenzo Bellini. Pollione: Franco Corelli. Norma: Maria Meneghini Callas. Direttore: Gabriele Santini. Signore e signori, la Rai-Radiotelevisione Italiana vi augura buon ascolto». A questo punto è silenzio assoluto nelle case e tutti immaginano di essere là, magari nel loggione e di partecipare all’evento «alla presenza del signor presidente della Repubblica». Ma sull’aria Casta Diva la voce della Callas si appanna. Qualche rumore del pubblico, nonostante la claque. Cala il sipario, tutti in camerino. Fra il pubblico, il presidente Gronchi aspetta con pazienza. Passano i quaranta minuti canonici di intervallo, ma Maria non torna in scena. Arriva un annuncio, freddo, ufficiale, trasmesso in tutta Italia e non solo (la radio arrivava e arriva ovunque): «Per causa di forza maggiore la rappresentazione è sospesa». Stop. Imbarazzo sul palco d’onore, fischi tra il pubblico, sconcerto nelle case, cui devono far fronte – a questo punto – i due inviati della Rai. E sono due giganti: Maria Pia Moretti e Lello Bersani. Dice Bersani: «Amici ascoltatori il ritardo è veramente inspiegabile e la collega è giunta ora dal palcoscenico e ha assunto informazioni presso il direttore di scena. Come spieghiamo questo ritardo?». C’è curiosità e imbarazzo anche nel pubblico da casa. Si crea un giallo in piena regola e ci si interroga. La radio ha questa forza: è il teatro della mente e ognuno ricostruisce l’evento con la propria immaginazione. E se Bersani, parlando, si fa le stesse domande del pubblico, Maria Pia Moretti dà le risposte. Eccole: «Le notizie non son molto precise, sono piuttosto vaghe ma da quello che ho potuto capire la signora Maria Meneghini Callas tarda a scendere e forse le sembra che l’accoglienza che lei si aspettava non sia stata così piena e così unanime. Noi pensiamo che sia una falsa impressione perché effettivamente il pubblico ha avuto per lei tutta la simpatia e l’ammirazione che la sua arte merita. Ci auguriamo che sia comunque un malumore momentaneo che lasci posto anzi forse ad una più calda, potente e più trascinante interpretazione di Maria Meneghini Callas». Poi, secco come la caduta di un ramo arriva l’annuncio e la Moretti tenta di spiegare in un uragano di fischi: «Il comunicato dice per cause di forza maggiore la rappresentazione è sospesa. Come gli ascoltatori possono udire il pubblico ha una reazione piuttosto accesa ed è anche comprensibile, naturalmente il chiasso maggiore viene dal loggione». E Lello Bersani sottolinea: «...e a questo punto ricordiamo che in un palchetto di prim’ordine c’è Elsa Maxwell», e pronta Maria Pia Moretti chiosa: «Vorrei dire che Elsa Maxwell in questo caso proprio non ci voleva!». Poche parole chiare con un mondo dietro: innanzitutto la prontezza dei due giornalisti, immediati nel dialogo, nel commento, nel far “vedere” la radio. La notizia farà il giro del mondo. Poi, raccontando, Bersani e Moretti arricchivano con nomi, circostanze e fatti. Lei, Maria Pia Moretti era popolarissima: Alberto Sordi si ispira a lei per inventare il personaggio radiofonico di Mario Pio come voce amica della gente. E Moretti, parlando della soprano, scandiva il suo cognome doppio «Meneghini Callas». E qui si aprivano orizzonti infiniti.
Mondo contadino. Giovanni Battista Meneghini era uno splendido cinquantenne, molto ricco, altrettanto gaudente e appassionato di lirica ed era stato il pigmalione della Callas, aiutandola economicamente, sostenendola, credendo in lei diversamente da tutti gli altri, famiglia di origine compresa. Si frequenteranno, si ameranno e si sposeranno contro il parere della famiglia di lui e contro una vox populi perplessa di fronte a una artista ancora poco conosciuta, molto giovane, e – si diceva – altrettanto vanitosa e quindi arrivista dal basso dei suoi ventisette anni di meno. Grazie anche ai commenti da bar (in Italia vige spesso la bar condicio) Maria e Giovanni Battista si sposeranno praticamente da clandestini, nel 1949 contro tutto e contro tutti, Elsa Maxwell compresa. Lei, pianista, giornalista, donna di mondo, inserita in quel bel mondo, nemmeno poi tanto segretamente affascinata dalla Callas, non vedeva bene quell’industrialotto italiano e, non riuscendo ad avere Maria tutta per sé, la presenta all’armatore greco Aristotele Socrate Onassis, annessi e connessi, tradimento e separazione da Meneghini compresi. Insomma, nei modi, nei toni, nei contenuti di quella radiocronaca di Bersani Moretti c’è uno spaccato reale di un certo tipo di società internazionale del dopoguerra e del dopo-dopoguerra. Ma quella sera, la trasmissione era interrotta. E restava sempre la possibilità di ascoltare le canzoni alla moda, proprio con il giradischi, sempre più fedele, sempre più presente nella vita quotidiana della fine degli Anni Cinquanta. Tra le scelte, si privilegiavano quei cantanti familiari, come Louis Prima, di origini italo-americane. Ci si identificava in quell’americano spurio, ma cantante in puro “brokkolinese”, figlio di Anthony Di Prima, emigrato siciliano da Salaparuta, sposato con Angelina Caravella arrivata a New Orleans, in fasce e direttamente da Ustica. E, nel 1958, sembra si rivolga a tutte le signorine d’Italia con la sua Buona sera (Signorina). La parola era estremamente popolare: chi aveva dimenticato la parola “seegnoreena” con la quale i soldati americani chiedevano affetto alle ragazze italiane, incontrate per strada a festeggiare l’arrivo degli Alleati a (ri)portare libertà e democrazia. Per cui il motivo entrava nelle case e nelle orecchie e si ricantava storpiando le parole esattamente come le storpiava Louis Prima. «Buonasera signorina buonasera / come è bello stare a Napoli e sognar» diventava immediatamente «Bonassera segnorina bonassera / comm’è belle starre anNapolee ssognnar /» con tutti i rimandi possibili a una storia recente: lo sbarco degli Alleati, Napoli come città di incontro, il passeggio sul lungomare in una primavera metaforica dopo l’inverno della dominazione nazista e così via. Louis Prima era come uno di quei “paisà” sbarcati sulle nostre coste quattordici anni prima di quel 1958: stesse origini, stessa lingua, stesso sorriso, stessa voglia di “seegnoreene”. Quanto passato prossimo in una sola canzone e «Quante cose abbiamo detto / sospirando / in quell’angolo più bello del mondo / Quante volte ho sussurrato / amore t’amo! / Buonasera signorina / kiss me goodnight / Buonasera signorina / kiss me goodnight». Ma com’è la signorina in quel 1958? È casalinga, assolutamente casalinga, sempre e costantemente casalinga. Sono pochi gli strumenti per scappare via da quelle pareti con finestre aperte sulle strade, ma chiuse sul mondo. Fra questi strumenti, la radio, con le voci, con le canzoni d’amore, con le commedie, con gli spettacoli di varietà. Il cinema, di tanto in tanto. Pochissima televisione (è nata da quattro anni), molti fotoromanzi. Le donne leggevano i propri sogni su riviste appena arrivate in edicola, fantasticando storie d’amore variopinte anche se rigorosamente in bianco e nero e bloccate nei fotogrammi di un fotoromanzo. Questo è il ricordo di Franco Talozzi, sindaco di un paese dell’Appennino: riaffiora un’Italia contadina, alle prese con la scoperta di fotografie su cui lasciarsi andare. «Nella casa colonica, dove eravamo mezzadri, mia sorella leggeva un giornaletto appena uscito, che già per come si chiamava, infuocava la fantasia: Grand Hotel. I contadini, di solito non leggevano giornali, perché sembravano uno spreco, raccontavano cose di un altro mondo, e anche perché bisognava andarli a comperare in paese, dove noi di campagna venivamo maltrattati come feccia: sudici, ignoranti, servi del padrone. Mia sorella faceva la sartina, si sentiva evoluta. Io, ragazzino, sfogliavo il suo Grand Hotel e mi perdevo nella serie delle “vite vissute”, dove persone qualsiasi, non nobili, non ricchi, raccontavano le loro avventure e figuravano ben vestiti, con delle belle scarpe, ben pettinati, affascinanti. Ci si tuffava in storie d’amore a lieto fine: ma il lieto fine non nasceva mai da un colpo di fortuna o da un miracolo: era a disposizione di chiunque sapesse uscire dal guscio schivo, della mentalità rassegnata dei vecchi». Tutto questo era un enzima, un catalizzatore del processo di cambiamento grande in quel 1958. Lo si percepisce anche nella musica. La radio liberava note nuove, in arrivo dall’America: accanto ai classici Frank Sinatra, Pat Boone, Perry Como, si affacciavano Elvis Presley, i Platters e Paul Anka. Ma, soprattutto sempre dall’America, arrivava la scatola sonora: il juke box. Non avrebbe spiazzato la radio, ma la nostra cara vecchia radio avrebbe affiancato la musica ascoltata dai ragazzi di -enti, massimo -enta anni. La loro musica non si limitava a uscire dall’altoparlante del juke box, ma entrava nelle case, con la radio, a beneficio dei ragazzi di -anta anni. Vola una immagine nuova: i ragazzi appoggiati in tutti i sensi a quello scatolone colorato, quella scatola strana con la quale potevi ascoltare il tuo disco preferito pagando una piccola tassa e selezionando – con una ruota e dei caratteri – la musica da gettonare. E questo neologismo nasce proprio ai piedi del juke box, assieme all’immagine caratteristica di quel 1958 del gruppo di ragazze e ragazzi intorno a scegliere le canzoni da ascoltare, dando segno di conoscerne le parole. Naturalmente il migliore del gruppo era chi sapeva andare dietro al cantare dei grandi americani. Forse il più rappresentativo era proprio un coetaneo, Paul Anka: nel 1958, a diciassette anni riempie il mondo con le note di Diana. Attorno al juke box forse i ragazzi italiani nemmeno si rendevano conto della portata rivoluzionaria della canzone, non solo per ritmo e melodia. Ma anche soprattutto per il testo. Paul Anka, ragazzo canadese, di origine libanese intona: «I’m so young and you’re so old / This, my darling, I’ve been told / I don’t care just what they say / ’Cause forever I will pray / You and I will be as free / As the birds up in the trees / Oh, please stay by me, Diana!». Ragazzi e ragazze si agitano ascoltando e si identificano in quel coetaneo d’oltreoceano. E si meravigliano quando qualcuno di loro, un po’ più preparato in inglese, spiega: «Ma sapete di cosa parla questa canzone?». E, nello stupore generale, traduceva approssimando: «Io sono così giovane e tu così vecchia / Questo, mia cara, mi hanno detto / A me non importa quello che loro dicono / Perché io per sempre pregherò / Affinché tu ed io siamo liberi / Come gli uccelli sugli alberi / Oh, ti prego stai con me, Diana».
Ho scritto t’amo sulla sabbia. A quel punto gli adolescenti italiani stupivano: «Ma come è possibile? Una storia d’amore fra un adolescente e una signora molto più anziana di lui? È inaudito», chiosava il rigorista del gruppo, nemmeno poi tanto convinto: era un ritmo nuovo, cantato da un coetaneo, ultra gettonato nei juke box, acquistato da oltre nove milioni di persone. Al rigorista facevano eco immediato in coro più o meno tutti: «Ma va! Smettila! I tempi stanno cambiando! Siamo quasi negli Anni Sessanta!». Era proprio così: mentre la canzone italiana imperterrita si cullava con le rime cuore/amore, la musica americana svegliava tutti con il rock and roll e provocava con testi al di là delle consuetudini tradizionali. Paul Anka dedicava Diana a Diana Ayou, la sua baby sitter e, comunque, rompeva ogni schema possibile proponendo una situazione ancora oggi in controtendenza rispetto alla tranquillità benpensante: in realtà, assolutamente compatibile a meno di non voler tornare al tempo del medioevo nel quale ogni differenza di età nella coppia veniva dileggiata per strada da cortei di giullari mascherati nella ritualità chiamata charivari. Arriva il juke box dall’America assieme alle novità discografiche e cambia anche il modo di ascoltare la musica: con il juke box diventa partecipata, si ascolta insieme. E ascoltare insieme le canzoni è differente dal sentirle trasmesse alla radio o riprodotte dalla puntina del giradischi di casa. Da quella fine degli Anni Cinquanta la musica diventa condivisa, soprattutto dai giovani. Ecco il rito: le ragazze intorno al juke box, i ragazzi intorno alle ragazze intorno al juke box. Basta un soldino, poi manovrare il selettore ed ecco materializzarsi la voce di Pat Boone, Love letters in the sand. Bello, voce profonda e un titolo fin troppo facile da tradursi: Lettere d’amore nella sabbia, un tema caro a tutti i sogni di tutti gli innamorati e non solo del 1958. Le ragazze si stringevano nelle spalle, dondolando al tempo dello slow e i ragazzi immaginavano di poter stringere loro prima o poi quelle spalle. E per farlo, si pettinavano come Pat, guardando loro leggermente di traverso, con aria da seduttore e provando a intonare, sulle note del disco originale: «On a day like today / We passed the time away / Writing love letters in the sand». (In un giorno come oggi / Abbiamo passato il tempo lontani / Scrivendo lettere d’amore nella sabbia). È un sempreverde da allora, da quel 1958. E, da allora, non c’ è sabbia estiva sulla quale qualche innamorato pensa di scrivere il suo nome, facendo rimbalzare il concetto fino a Franco IV e Franco I, cantori dell’Ho scritto t’amo sulla sabbia, vergato sulla battigia di dieci anni dopo, proprio nel 1968. Tutti debitori inconsapevoli di Edmund Spenser, poeta inglese (East Smithfield, Londra, 1552 circa - Londra, 1599). Verso la fine del XVI secolo scriveva così: «Il suo nome scrissi un giorno sulla sabbia / ma vennero le onde e lo lavarono via». Chissà se Pat Boone, prima e Franco IV e Franco I poi si siano voluti ispirare proprio a Spenser, immaginando anche la fine inevitabile di una storia d’amore costruita scrivendo i sentimenti sulla sabbia. Pat Boone chiudeva così il suo racconto in note in quel 1958: «Now my broken heart aches / With every wave that breaks / Over love letters in the sand» (Ora il mio cuore spezzato fa male / Con ogni onda che si rompe / Sopra le lettere d’amore nella sabbia). Così come Edmund Spenser faceva calare il sipario su sabbia e sentimento qualche secolo prima: «lo scrissi nuovamente, con una seconda mano / ma venne la marea a far scempio delle mie pene». Ma, alla fine, i ragazzi del 1958 avevano un piano “b”: un altro soldino per far andare il juke box. La selezione di quell’anno sembra un riassunto dell’evoluzione del costume: i Crest cantano Sixteen candles, un compleanno per i sedici anni di lei. Ed ecco apparire la scena: lui si presenta, le fa gli auguri per il compleanno invitandola sulla Thunderbird decappottabile con cambio rigorosamente a cloche, portata via di nascosto del padre. Lei salirà con la sua gonna larga, la fascia nei capelli, la camicetta abbottonata e qualche pensiero proibito. Sedici anni: potrebbe essere la prima volta, intendendo per questa, la prima sigaretta fumata di nascosto. A quel punto è quasi fatta. Si potrà chiederle di uscire di sera (con gli altri). Ma mentre si affacciano questi pensieri il juke box propone con un altro disco il sogno di ballare guancia a guancia e Frank Sinatra – sempre nel 1958 – canta Cheek to cheek, un successo del 1935 firmato Irvin Berlin, per il film Top hat, il cappello a cilindro. Loro due erano Fred Astaire e Ginger Rogers: nella vita si detestavano, ma nella finzione cinematografica avevano scatenato per decenni il desiderio di ballare guancia a guancia, cheek to cheek, appunto. Quel juke box, quella scatola strana, con tutti quei colori ha un potere ipnotico: le stanno tutti intorno, immaginando di veder prendere forma la fantasia. Tutti, tutti intorno anche i bambini: loro assistono a questi corteggiamenti in punta di note e soldini sperando di diventare grandi prima per poter entrare a far parte di questa storia infinita. Sembra di vivere un momento magico. E puntuale arriva Magic moments con Perry Como, adorato anche perché italo-americano: era infatti Pierino Ronald Como, protagonista di uno show andato in scena decenni (il Perry Como show), tra le prime trasmissioni della televisione italiana.
Se il momento è magico. Magic moments di Burt Bacharach e David (Hal, morto da poco, ultranovantenne) è fra le bandiere di quell’anno. Infatti il 1958 è un momento magico. La ricostruzione di fatto è avvenuta, l’Italia non cammina più sul Cucciolo, il motorino pulsante forte come il cuore nel 1948 e, dopo 10 anni, tutto sembra essere magia: da una scatola escono i suoni a comando, da un’altra scatola piovono immagini in bianco e nero e si chiama televisione, visione da lontano. E infatti tutti guardano lontano verso il momento magico del 1958. Lontano, lontanissimo: verso lo spazio. Un anno prima l’Unione Sovietica ha spedito Laika fra le stelle: è una cagnetta. E ci si chiede: quando toccherà all’uomo? Appunto, non se toccherà all’uomo, ma quando toccherà all’uomo. Perché l’uomo in quel 1958 è affacciato sul futuro, con la prospettiva di volare il tempo. Si viaggia con le quattro ruote (prima la Fiat 600, poi la 500) e anche nei pagamenti si immagina il futuro di questo momento magico: ci si impegna con le rate. Paradossalmente, il pagare a rate nel 1958 non dichiara difficoltà economica, quanto la possibilità di pagare. È un “pagherò”, con il significato reale di futuro in arrivo, di un oggi sufficiente, ma di un domani migliore. Gli uomini realizzano. E le donne continuano a sognare. Non solo il momento magico ma quel momento in cui saranno mogli, madri, nonne, riparate dal benessere di quel momento magico. E se non arriverà o ci farà un po’ soffrire prima che arrivi, non importa. Quella lacrima non sarà di malinconia, ma sarà figlia del fumo di una sigaretta. Già, perché anche la sigaretta diventa un simbolo: di emancipazione, di vizio tollerato, di socializzazione. Fumare una sigaretta insieme, può essere uno dei tanti momenti di aggregazione, favoriti anche dalla scatola sonora, dal juke box. Lo sanno bene The Platters: in quell’anno, in quel 1958, indovinano due successi indimenticabili: Smoke gets in your eyes, e Only you. In realtà sono due canzoni precedenti il 1958: Smoke gets in your eyes è del 1933 e Only you è del 1955. Ma dilagano letteralmente con l’arrivo del juke box: due canzoni d’amore con uno stile completamente differente. La prima, è il lento classico, ballabile e ballato guancia a guancia: alle feste di compleanno, in quelle case con il mobile radio/giradischi, i ragazzi invitavano a ballare l’amica della favorita, sperando di insinuarle il tarlo della gelosia. E guardavano la favorita ballare con un altro, subendo il tarlo della gelosia: chi di tarlo ferisce, di tarlo perisce. E, allora, la prossima mossa era invitare direttamente la favorita in terrazza a fumare la più proibita delle sigarette, mentre il giradischi diffondeva ancora quella Smoke gets in your eyes disperata: «They asked me how I knew / My true love was true Oh,/ I of course replied / Something here inside / cannot be denied / They said someday you’ll find / All who love are blind / Oh, when your heart’s on fire / You must realize / Smoke gets in your eyes». Disperata e disperante: perché ora, sul terrazzo si doveva azzardare il tutto e per tutto. Per cui, lui aveva provato a tradurre il testo e, con la sigaretta proibita in mano, tentava di spiegarle il significato di quelle parole graffiate dai Platters. E, goffamente, dandosi un tono, esibiva un biglietto, scritto la sera prima, rigorosamente con la penna stilografica. «Ecco, vedi? Su questo lato è la traduzione del disco dei Platters. Tieni: l’ho preparato per te». Lei, decisamente indecisa, prendeva il foglietto e leggeva: «Mi hanno chiesto come facevo a sapere che il mio vero amore era vero, / Io, naturalmente, risposi, qualcosa qui dentro non si può negare / Hanno detto un giorno capirai che tutti coloro che amano sono ciechi, / Quando il tuo cuore è in fiamme, è necessario rendersi conto, / che il fumo va negli occhi». Lui, dopo aver scrutato ogni espressione del viso, anche la più impercettibile, chiosava, lasciando avvolgere il fumo della sua sigaretta al fumo della sigaretta di lei: «In amore si può soffrire ed è lecito piangere per amore…, se ti va, gira il foglietto!». E dietro alle parole tradotte di Smoke gets in your eyes, la frase fatidica: «Ti vuoi mettere con me?».
Note americane. Era la dichiarazione, in voga in quella fine degli Anni Cinquanta e per almeno tutto il decennio successivo. Difficilmente sarebbe arrivato il sì, là per là. Tendenzialmente la dichiarazione al maschile era seguita da un «ci devo pensare» al femminile: disperata e disperante come il disco dei Platters. Perché da quel momento iniziava la fase del “lui fa il filo a lei”, fase di durata imprecisabile. Ma era l’anno del volare e per arrivare al dunque, lui avrebbe potuto tentare l’altra carta offerta sempre dai Platters: Only you. Il metodo: sempre lo stesso. Portare lei ad ascoltare Only you davanti al juke box e consegnarle il biglietto con la traduzione. I Platters avrebbero intonato: «Only you can make this world seem right / Only you can make the darkness bright / Only you and you alone / Can thrill me like you do / And fill my heart with love for only you / Only you can make this change in me / For it’s true, you are my destiny / When you hold my hand / I understand the magic that you do / You’re my dream come true / My one and only you». E sul biglietto lei avrebbe letto questa dichiarazione d’amore ulteriore, plagiata da Buck Ram e Ande Rand, autori reali del testo e della musica: «Solo tu / Puoi far sembrare giusto questo mondo / Solo tu / Puoi rendere chiara l’oscurità / Solo tu, e tu / soltanto / Puoi farmi sentire così come fai tu / E riempire il mio cuore d’amore solo per te / Solo tu / Puoi fare / tutti questi cambiamenti in me / Perché è vero / Tu sei il mio destino / Quando stringi la mia mano. Io / capisco / La magia che tu fai / Sei il mio sogno realizzato / La mia e unica, tu». A questo punto, forse, lei si fidanzava dopo aver accettato il filo per qualche tempo. Ma, al di là delle parole più o meno utilizzate dai ragazzi di quel 1958, queste canzoni d’oltreoceano erano tutta un’altra musica. I Platters sapevano declinare il registro soffice e quello più urlato: in tanti provavano a imitare quell’«oh, oh only you», con la voce spezzata, mentre gli altri componenti del complesso (così si chiamava in gergo il gruppo musicale) facevano coro. E chissà quanti matrimoni e quanti figli sono nati, complici le atmosfere create da quei dischi da juke box.
(Fine prima parte)
Umberto Broccoli