Giulia Vola, Gioia 25/10/2012, 25 ottobre 2012
SE UN GIOVANE CATALANO INCONTRA UNA RAGAZZA FIAMMINGA
C’era una volta la vecchia Europa, un continente litigioso che passava da una guerra all’altra. Poi arrivò l’Unione europea: successe a Maastricht, sulle rive della Mosa, il 7 febbraio 1992. I confini sbiadirono, si decise un’unica moneta, s’istituirono tribunali e commissioni e i 500 milioni di abitanti ebbero una nuova casa. Vent’anni dopo, il 12 ottobre 2012, quell’Unione ha vinto il premio Nobel per la pace per aver individuato nell’integrazione l’antidoto ai conflitti. «Buona parte di quell’integrazione è nata nelle università», dice Sofia Corradi, docente di Scienze della formazione a Roma Tre, oggi in pensione, che lo ripete dal 1969: quando iniziò la sua battaglia che l’incoronerà “mamma Erasmus”. Sì, perché i primi cittadini di Eurolandia sono nati il 15 giugno 1987 insieme all’Erasmus, il programma di scambio studentesco che, dice Umberto Eco, «ha dato vita alla prima generazione di giovani europei». Secondo Eco è stata una vera e propria «rivoluzione sessuale: un giovane catalano incontra una ragazza fiamminga, s’innamorano, si sposano e diventano europei come i loro figli».
Certo è che, tornati a casa, maritati o meno, non si è più gli stessi. Francesco Cappè e Marco Mazzini sono partiti per l’Erasmus vent’anni fa. «È come aver fatto il militare», racconta Marco. «Un’esperienza che modella l’identità». Oggi hanno messo in piedi la fondazione GaragErasmus: «Vogliamo creare una rete di ex studenti per sviluppare progetti imprenditoriali pensati per la società europea». Come? «Per esempio con l’app Check in Europe, che mapperà tutti gli spostamenti nel continente e con una serie di appuntamenti dedicati», spiega Marco. Il primo sarà il 3 novembre, quando una delegazione, suddivisa in tre pullmini guidati per brevi tratti da europeisti convinti (tra cui anche Romano Prodi), arriverà a Bruxelles per farsi battezzare dal Parlamento. «Chiederemo anche che a ritirare il premio Nobel sia un gruppo di studenti Erasmus, i giovani europei doc».
MAMMA D’EUROPA
È il 1959, Sofia Corradi ha poco più di vent’anni, è appena tornata dalla Columbia University di New York dopo un anno di master in Diritto comparato frequentato grazie alla borsa di studio Fulbright. È entusiasta. Di se stessa, dell’esperienza che l’ha fatta crescere senza svuotare le tasche della famiglia e di essere pronta per laurearsi in Giurisprudenza a La Sapienza di Roma. Le mancano tre esami, omologhi di quelli sostenuti oltreoceano. Perciò va in segreteria e chiede che le siano riconosciuti. Nel ricordare quel giorno Sofia ancora si agita: «Il direttore iniziò a sbraitare in mezzo a tutti: “È pazzesco, lei se ne va a spasso per il mondo e noi dovremmo darle la laurea? La vuole rubare dopo aver studiato alla Columbia? Non l’ho mai sentita!”. Fu la più grande umiliazione della vita». Sofia quella volta si rassegnò, studiò e si laureò. Ma fu quella prepotenza a convincerla a intraprendere la missione. «Compresi che un anno all’estero mi aveva dato una marcia in più», racconta. Altroché: nel 1962 vince il concorso mondiale Nazioni Unite bandito dall’International federation of business and professional women e nel 1969 partecipa all’Assemblea generale della Conferenza dei rettori europei a Ginevra. Un’occasione unica: «Volevo che le università riconoscessero a tutti gli studenti il diritto di frequentare un periodo all’estero grazie a borse di studio e che, al loro ritorno, fossero riconosciuti loro gli esami sostenuti».
Un’opportunità che Sofia Corradi sfrutta con un po’ di astuzia: «Erano i tempi della contestazione e l’adesione rischiava di essere scarsa. Perciò inviai una trentina di lettere ai rettori delle principali università europee per far notare a ciascuno che nell’elenco delle prenotazioni mancava soltanto la sua, lasciando intendere che tutti gli altri colleghi si fossero registrati». La conferenza fu un successo.
Da allora Sofia Corradi ha preparato un promemoria dopo l’altro, ha persuaso i rettori dopo aver convinto le loro mogli, ha contagiato con il suo entusiasmo i ministri e gli studenti girando l’Europa, ha sconfitto i burocrati e la paura, segreta, di non farcela. Finché è arrivata all’associazione studentesca francese Egee, quella che in una colazione all’Eliseo ha convinto il presidente François Mitterrand ad appoggiare il progetto Erasmus.
«Quando l’Unione europea ha vinto il Nobel per la Pace mi è sembrato di riceverne un frammento», confessa oggi. Lei, che alla costruzione dell’integrazione e dello scambio per un futuro di pace ha dedicato la vita, non rivendica nulla: «Il mio sogno educativo è diventato realtà, ora tocca ai giovani che hanno toccato con mano la dimensione europea, gli erasmusiani, dimostrare di essere non più istruiti degli altri, ma più sapienti. Quando nei banchi di Bruxelles ci saranno loro, il resto del mondo se ne accorgerà».
RAGAZZI CON LA VALIGIA
Ad oggi gli erasmusiani sono due milioni e 700mila. Sono spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi e italiani, per lo più. Si sono scambiati le case e i professori, i libri e gli appunti, gli inciuci e le amicizie. Ne è nato di tutto. Su un aspetto, però, sono tutti concordi: «L’Erasmus ti cambia la vita». Chiara di Benedetto, veneziana iscritta a Lingue, da quattro mesi è a Oslo. «Quanto basta per aver capito che se a volte mi vergogno di essere italiana sono fiera di essere europea», racconta. «E che, anche se la mamma è la mamma, da sola me la cavo alla grande; che trovare un equilibrio in mezzo a tanta confusione è una conquista per la vita e che nulla è impossibile se hai voglia di metterti in gioco. Ma soprattutto che i confini sono convenzioni».
Boryana Klinkova, bulgara poco più che trentenne, nel 2001 è partita per l’University of technology nella tedesca Chemnitz. Doveva restarci tre mesi e invece non è più tornata indietro: «Mi sono sposata e ho trovato lavoro in un’altra università. Organizzo programmi di scambio per più di 700 studenti l’anno».
Nina Siig Simonsen, giovane danese di Roskild, dopo l’Erasmus in Lituania nel 2009 ha lasciato Scienze politiche per intraprendere studi europei. «La Lituania mi ha aperto molte porte», racconta. Di certo, quelle dell’ufficio danese a Bruxelles dove Nina sta facendo uno stage.
Katja Krohn, invece, ventisettenne tedesca, dopo cinque mesi a Oviedo, in Spagna, ha avuto una vera e propria “depressione post Erasmus”, confessa. «All’inizio confrontavo ogni aspetto della vita in Spagna con il modello tedesco», spiega. «Quando ho smesso mi sono sentita un’altra: un po’ tedesca, un po’ spagnola. Europea. Solo chi l’ha fatto può capire. Gli altri ti considerano un marziano». Oggi Katja è vicepresidente dell’Erasmus student network international con sede a Bruxelles, segue e sostiene gli studenti affinché trovino la loro strada in una nuova cultura europea.
ERASMUS IN LOVE
Eccola, la rivoluzione sessuale di Umberto Eco: ci sono italiani trapiantati in Francia, tedeschi che si sono innamorati di spagnole, greche che hanno sposato francesi. Ci sono, per esempio, Erik Martinson e Martina Gentile, lui svedese di Stoccolma, lei italiana di Modena. Lei «coraggiosa, divertente, pratica e comprensiva»; lui «prudente, affettuoso, ottimista e generoso». Lui ingegnere, lei filosofa. «Erik ama l’elettronica, l’opera, viaggiare e cucinare», racconta lei. «Martina legge trattati di astronomia, guarda film, ascolta Vasco Rossi», controbatte lui. In comune hanno l’Università di Metz, dove si sono incontrati e innamorati nel 2007. «Senza l’Erasmus non saremmo marito e moglie», chiarisce Erik. Il primo appuntamento è una passeggiata nello studentato sgranocchiando kebab e patatine fritte. «Credevo di camminare sotto un cielo stellato sorseggiando champagne», ridacchia Martina. Si sono sposati il 23 dicembre 2009 a Parigi, dove hanno deciso di vivere, lontani da tutti, vicini a se stessi.
E ci sono la mora Isa Molina, spagnola di Toledo, e il biondissimo Lars Virtanen, finlandese di Helsinki, che si sono conosciuti all’università di Aalborg, in Danimarca, nel 2009. Dopo sei mesi di passione hanno messo l’amore in valigia e sono tornati a casa. «Ci sentivamo tutte le sere su Skype», racconta Isa. «I miei genitori erano preoccupati e io li calmavo dicendo che chiacchierare con Lars era un modo per parlare inglese». Anche i muri sapevano che non era così: «Mi sono presentato sotto casa sua il 31 dicembre 2011», racconta Lars. «Volevo che mai più un anno cominciasse senza di lei a fianco». Oggi Lars e Isa vivono insieme a Berlino, una via di mezzo, come la chiamano, insieme a Tolsinky, un pastore tedesco che nel nome ha la Spagna di lei e la Finlandia di lui.