Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 06/11/2012, 6 novembre 2012
«IL GATTO SELVATICO» NEL SACCO DI MATTEI
Nella celebrazione dei cinquant’anni dalla morte di Enrico Mattei è stato raccontato soprattutto (e giustamente) il grande imprenditore-politico. Bisognerebbe ricordare come l’industriale sia riuscito a vedere «oltre» anche in ambito culturale, convinto che la modernizzazione non poteva (non può) essere solo sviluppo economico. Prima della nascita del Giorno, nel 1955 Mattei volle avviare un laboratorio culturale interessato certo all’autopromozione ma anche generosamente aperto alla sperimentazione nel rapporto tra intellettuali e le maestranze per lo più incolte dell’Eni. La sfida era affidata al mensile Il gatto selvatico, la cui direzione fu affidata al poeta Attilio Bertolucci. Non sarà mai eccessivo rievocare la storia e il ruolo dei tanti periodici aziendali che, nel dopoguerra, furono espressione di un ambizioso progetto socio-culturale inteso a orientare il lettore (lavoratore e consumatore) dentro la nuova società urbana.
Era, ovviamente, un Paese molto diverso da quello attuale, l’Italia della ricostruzione e del boom, delle grandi speranze che si lasciavano alle spalle le miserie contadine del passato. Bertolucci rivendicò un’idea tutt’altro che elitaria, volle fare della rivista un luogo di divulgazione e di intrattenimento che guardasse al presente e al futuro, e chiamò a raccolta scrittori, critici e giornalisti, vecchi e giovani, perché raccontassero a loro modo il paesaggio (anche umano) che cambiava: molti nomi erano già noti (da Gadda a Bassani), altri erano agli esordi e avrebbero trovato spazio, dall’anno dopo, anche nel Giorno. Vennero pubblicati ampi reportage di viaggio dalle periferie e dalle città, rubriche sulla villeggiatura, sulla moda, sulla cucina, sul cinema, sulla tv degli albori, sui fumetti, sullo sport, sulla canzone, consigli sulla spesa, sulle novità linguistiche, sulla salute, sulle tecnologie. È vero che non sempre l’accostamento tra le due culture (umanistica e tecnico-scientifica) trovò una sintesi adeguata, non sempre i linguaggi convivevano in armonia, non sempre gli scrittori si dimostrarono all’altezza della sfida. Senza dimenticare il fastidioso paternalismo sull’azienda come «grande famiglia».
Ora, non si tratta certo di riproporre nostalgicamente quelle formule. Sarebbe follia pensare che un imprenditore assumesse il Bertolucci attuale proponendogli di raccogliere attorno a sé un gruppo di scrittori che cerchino di fotografare il cambiamento, anzi la rivoluzione cui assistiamo. E neppure sarebbe immaginabile che ci sia un industriale disposto a investire due euro per promuovere la crescita intellettuale dei propri dipendenti. Si tratta invece di riflettere su come sia stata possibile, in questi cinquant’anni (dunque ben prima della crisi economica), una tale caduta a picco della civiltà industriale nei suoi rapporti con la cultura: cultura come supporto indispensabile non solo genericamente del progresso ma del banale benessere di un’azienda e dei suoi dipendenti.
Paolo Di Stefano