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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

NON CI SON PIÙ I RICCHI DI UNA VOLTA (E A DIRE IL VERO NEPPURE I POVERI...)

[Conto in banca a parte, nella società contemporanea sono spariti i segni distintivi del censo, dai modi all’accento. Perché tutti si danno del tu e fanno le stesse cose] –
La contemporaneità ignora il concetto di «elevarsi», tendere verso l’alto. In un momento di forti contrasti sociali, di spending review (annunciata), di forbice tra ricchezza e povertà che si dilata, si assiste a un impoverimento nel vivere quotidiano. Non occorre essere nostalgici o inseguire uno stile che sembra appartenere a pochi. Né tantomeno esistono più le classi di viaggio dei transatlantici, come non assistiamo più alla dignità del povero che almeno la domenica vestiva in maniera elegante come rispetto nei confronti degli altri, ma implicitamente di se stesso. Curiosamente, semmai, assistiamo a un approccio scialbo e finto-trasandato da parte dei nuovi ricchi che vestono da straccioni. Una nemesi dello stile e della pertinenza dell’essere.
Entriamo in un mese particolare, novembre. E tutti noi, non più giovanissimi, oltre ai Santi e ai cari defunti, ricordiamo un’altra data: il giorno 11. San Martino, pure con la sua «estate». La poesia del Carducci. E la storia di Martino, il militare che alle porte della città di Amiens con i suoi soldati incontrò un mendicante seminudo. D’impulso tagliò in due il suo mantello e lo condivise con il povero. Quella notte sognò che Cristo si recava da lui per restituirgli la metà del mantello che aveva condiviso.
Un tempo i segni delle divisioni sociali erano forti e chiari: gli abiti, l’accento, gl’interessi, i modi. Erano segni di censo e «di cultura», come si diceva all’epoca, prima che ogni segno distintivo, anziché rimandare a qualcosa di solido la ricerca dell’eleganza, per esempio, s’accontentasse di segnalare l’esatto contrario della distinzione: il glamour, il bon ton. Erano segni che ciascuno si portava addosso, evidenti e inequivocabili, come una sorta di giubbotto catarifrangente sociologico: io sono esattamente questo, come mi vedi, senza rete, senza trucchi, un aristocratico, un «padrone», un borghese, un piccolo borghese, un proletario. (...).
Se un tempo la ricchezza comprava ciò che non ha prezzo, la bellezza, l’amore per l’arte, i viaggi, gli amori, i grandi sarti, una vita da trascorrere praticando l’arte (non la minore) della conversazione (...) oggi non è rimasto che il lato oscuro. Oggi anche i Guermantes, giudicandoli dai servizi dei giornali specializzati in gossip, praticano il bunga bunga e il karaoke, come gli arricchiti, piuttosto che l’arte di vivere, come nelle pagine della grande letteratura. (...).
Tutti in jeans, col maglioncino, gli occhialetti dalla montatura rossa o blu, sia i leader comunisti appassiti che i grandi imprenditori e i politici. Morta l’eleganza, morte le distinzioni sociali, quel che è peggio è che tutti si sforzano di dire più o meno le stesse cose nel gergo odioso e semicolto del politically correct, che riduce il mondo e la sua concretezza a pura astrazione, trasformando le Opinioni in Idee, le Idee in Superstizioni, l’Etica in Astrologia. È il mondo dell’ignoranza, della finta sapienza: il mondo di chi non sa quel che dice esattamente come non sa vestire né ragionare o comportarsi. (...).
Non va meglio ai poveri, alle classi basse, un tempo anche «pericolose», che ancora una o due generazioni fa potevano compiere un salto di classe utilizzando gli strumenti delle società libere, in primis la scuola pubblica, che permetteva al figlio del contadino e dell’operaio di diventare ingegnere o medico. Della scuola pubblica restano solo le macerie e, per il salto di classe, non c’è altro trampolino che l’arricchimento puro e semplice, ma il guaio è che nei tempi grami dell’economia finanziaria (...) a fare i soldi sono i soldi, e i soldi chi ce li ha ce li ha; e gli altri ciccia, sono tagliati fuori. Non c’è promozione sociale nel mondo degli arricchiti, del pubblico impiego e dei disoccupati, quando non ci sono semplicemente più mete da raggiungere (o modo di raggiungerle, se ce ne fossero) o condizioni dalle quali emanciparsi. Tutti sono ossessionati dalle stesse diete, vestono nello stesso modo, professano le stesse opinioni banali, hanno frequentato le stesse pessime scuole e parlano con lo stesso accento odioso (e studiatissimo) che gli si è appiccicato guardando brutti film e la peggior fiction televisiva,dove i vecchi si comportano da giovani, i giovani pensano solo a sciocchezze e tutti si danno implacabilmente del tu. (...).
Tutti amiconi, tutti complici. Ogni distanza è cancellata, dilaga il tu, il lei declina e scompare. Ma era proprio il lei, la terza persona che funzionava da segnale di rispetto, di tatto, di prudenza, a dare senso al tu, a farne uno strumento prezioso, mutuo e insostituibile. (...). Alla civiltà delle convenzioni sociali, delle forme rigide ma collaudate, si sostituiscono i gelidi mucchi del party sociale dove ci si dà del tu soltanto perché non si ricorda che ci si dava del tu,un tempo, perché da qualche parte c’era ancora un io.