Giampiero Mughini, Libero 02/11/2012, 2 novembre 2012
NOSTRA SIGNORA DEL DESIGN TRICOLORE
[Non solo architettura e Quai d’Orsay: a Gae Aulenti dobbiamo oggetti che cambiarono l’Italia Celebrata più all’estero che da noi, si vergognò di quel craxismo che pure contribuì a esaltarla] –
È strano come nella vita di noi tutti ci siano persone che non hai mai incontrato e che pure sono presenti e familiari, come se di loro tu ne sapessi e ne capissi molto. Non ho mai conosciuto di persona Gae Aulenti, morta ieri a 84 anni, tutt’al più la devo avere sfiorata e non era tipo che ti sorridesse se ti incontrava per caso. Eppure, per delle ragioni che vi dirò fra poco, mi era in un certo modo familiare.
Come tutte le donne della sua generazione che ce l’hanno fatta - e da architetto e designer la Aulenti è stata fra le primissime al mondo, una star italiana nel mondo - non credo avesse un carattere facile. Nata in Friuli nel 1927, laureata in Architettura al Politecnico di Milano nel 1949, dal 1960 al 1962 assistente all’Università di Venezia del professor Giuseppe Samonà, il suo campo d’azione professionale era stato dapprima la Olivetti dei fulgidi Cinquanta e poi la Milano dei Sessanta che era di certo «una città da bere», ma dove di donne professionalmente di punta nell’architettura e nel design ce n’erano poche se non nessuna.
Studi professionali di architetti ce n’erano tanti e celeberrimi in quella Milano: da Enzo Mari a Mario Bellini, da Bruno Munari ai due fratelli Castiglioni a Ettore Sottsass. Una genìa pazzesca di creatività, quella che ha timbrato del suo marchio la storia del design italiano, forse il più importante dell’intero Novecento. Ebbene, non ancora quarantenne Gae Aulenti non era seconda a nessuno di quei maschiacci, e da subito era stata scelta a dare un volto alle case della borghesia che aveva assieme denari e gusto, la famiglia Agnelli in primis. Eccola in prima fila a inventare gli oggetti, le forme, le armonie che hanno dato il loro speciale sapore alla rivoluzione culturale dei Sessanta.
Ho nella mia camera da pranzo, la camera dove entrano i miei ospiti a cena, un esemplare originale della bellissima lampada disegnata dalla Aulenti nel 1967 che ha per titolo «Il Re del Sole». E ricordo come fosse adesso la volta che arrivò a cena il mio caro amico Carlo Ripa di Meana, e subito la individuò e subito ne pronunciò il nome. Perché quella lampada era stata progettata e disegnata, trenta e passa anni prima, nell’appartamento milanese di via Cesariano dove lui e Gae Aulenti facevano coppia. In quella «Milano da bere» di cui ho detto e dove Carlo era stato a lungo presidente del Club Turati di via Brera, il laboratorio degli uomini e delle idee del primo centro-sinistra e il simbolo della storia migliore del socialismo italiano riformatore. Il socialismo milanese dove stava maturando la personalità politica di Bettino Craxi, un nome che per i cretini è divenuto sacrilego da pronunciarsi e che invece appartiene per intero alla storia politica del nostro Paese e la marchia. E mi spiace che in una sua intervista di qualche tempo fa la Aulenti si riferisse in termini aciduli a quel mondo socialista degli anni Sessanta dove lei e Carlo erano primattori. Una coppia che sarebbe durata la bellezza di 21 anni e sino alla fine dei Settanta, quando nella vita di Carlo irruppe un uragano di nome Marina. Un lutto personale e sentimentale che non è che togliesse energie e creatività all’architetto Gae Aulenti, semmai quella creatività la accendeva ulteriormente. Una creatività che non s’è attenuata sino all’ultimo e recente tempo della sua vita. Pochi giorni fa, il 16 ottobre, la Aulenti aveva avuto un premio dalla Triennale di Milano, l’istituzione che funge da Olimpo della nostra architettura e del nostro design.
È poi successo alla Aulenti quel che è successo a tanti architetti e designer italiani, di essere quasi più celebrati all’estero che in Italia. È successo a Carlo Scarpa e a Bruno Munari, che in Giappone erano reputati dei miti nel loro campo. È successo a Gaetano Pesce, che a 23 anni ha abbandonato l’Italia e che da trenta vive a New York. È successo a Mario Bellini, che le sue cose più importanti riesce a farle meglio all’estero che non in Italia, ultima la sua magnificente installazione museale che a Parigi celebra la storia della grande cultura musulmana.
È successo in parte a Gae Aulenti, il cui iter professionale ha come stemma il Museo parigino del Quai d’Orsay, uno dei più importanti musei al mondo nel raccontare i fasti del secondo Ottocento e del primissimo Novecento: un museo che nella sua collezione permanente ospita 4.000 pezzi e di cui siamo in tanti a ricordarne la visita come una delle esperienze che lasciano una traccia. C’era un edificio, una stazione costruita a Parigi nel 1900 (nel bel mezzo di quel tempo liberty carissimo alla Aulenti), che era stato dismesso. Lei lo reinventò e lo rianimò a furia di trovarvi una collocazione alle testimonianze artistiche di un tempo eccezionale nella storia delle arti e della cultura, tutte opere che era come se si incontrassero e si mettessero a dialogare fra loro.
E non solo il Quai d’Orsay. Dappertutto nel mondo la Aulenti ha esportato il marchio dell’inventiva all’italiana, quello di cui qualcuno dice che resta uno dei più importanti brand al mondo. L’ho detto. Questa ragazza del 1927 era una star italiana nel mondo. Come Federico Fellini o Giorgio De Chirico. Né più né meno.