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 2012  novembre 06 Martedì calendario

QUELLO CHE CI RESTA DELLA GRECIA

[Dal V secolo a.C. l’energia portentosa e purificatrice della rivelazione tragica] –
Mi domandavo spudoratamente, che cosa possiamo utilizzare per sempre, della Grecia? In che cosa può aiutare in concreto, l’Occidente in cui siamo, orizzonte dannato, a crearsi un pensiero, un ideale di consolazione? È stato il tema del mio monologo drammatizzato al teatro Grassi di Milano il 2 ottobre scorso e l’attenzione con cui il pubblico l’ha seguito m’incoraggia a una riflessione ulteriore.
Dal fondale nero pendeva la Nike di Samotracia, che accoglie col suo volo vertiginoso i visitatori del Louvre. È un rimedio contro l’angoscia? La Nike vale il mantello della Madonna della Misericordia di Piero? Nel momento del loro apparirci sì, ne ho fatto esperienza. L’ignoto artista credeva di celebrare una vittoria militare, invece la sua Nike è una leva per sollevare in alto un’idea dell’uomo dalla bassura, lo aiuta a vincere se stesso, gli sussurra «Questo sei tu» come una Upanishad di marmo palpitante.
Un messaggio come questo calma però soltanto la calma: in una condizione di bisogno e di tumulto estremo, nell’implacabile cadenza di ciò che è ultimo - uomo contro uomo, uomo in preda alla natura - ci contempla impassibile, la statua senza mani non accenna gesti di aiuto.
«Oh l’orribile squarcio di coltello!
/ Il corpo mio, la mia figura invecchiano! / Non ho la forza di soffrirlo. E a te ricorro / (Tu a volte medichi), Arte di poesia; / Stordiscimi / Per mezzo dell’immagine e del suono / Tanto dolore...»
Stordirgli il dolore ... così si consola Kavafis, nel 1921, immaginando il lamento di un poeta, Iason di Cleandro, vivente sei secoli d.C.
Ma che cosa può fare per lui, al di là di un fuggitivo stordimento, l’artepoesia? La vecchiaia procede inesorabile, i piaceri da lui amati non galleggiano più che nella parola evocatrice, il suo androceo efebico è nebulosa di ricordi.
Epicuro volle fornirci di un verbo di salvezza. Ma sopravvenuti gli spasimi atroci della vescica, la sua consolazione suprema non furono le grandi massime irradiate dalla sua filosofia; fu di ubriacarsi a più non posso in una tinozza caldissima, e uscire così dal martirio prostatico e dalla vita.
Oggi però il primario urologo, a noi vecchi capibranco ai quali nella buona salute dava conforto filosofare, indora l’amara pillola: «Eh, non lamentatevi... oggi sono pronti per voi amorevoli cateteri, farmaci d’America, nano e criochirurgia... un giardino di delizie!».
Ma L’Ellade eterna è ben ferrata in repliche dure. Risponderebbe che non è il farmaco a mancarci ma il non-essere, lo stato forse beato di non-esseremai stati, che questo Sein zum Tode Essere per la Morte -, sia pure rischiarato dal tenue lume dell’arte di poesia, non vale tanto spreco di pena, non compensa la violenza dei flagelli che colpiscono il pianeta darwiniano. Di più: la Grecia sacra si domanda se davvero siamo , se tutto davvero sia ; dubita degli Dei e della loro provvidenza, li teme e li irride, sa che a noi non ordiscono che inganni: Euripide che volle romperne la rete fu sbranato dai cani.
Davvero, la consolazione senza limiti non è greca! Anche nell’eccesso la Grecia è misura.
Spunta un sorriso in una poesia di Yannis Ritsos, ed è a prezzo di pena. Vedi la raccolta della Pignata affumicata . In un poema del 1944, Grecia occupata, tedeschi ad Atene con poco convinti alleati italiani, Ritsos fra i prigionieri dell’occupante stipati in una galera intravede e fa circolare la consolazione di un sorriso, di un comune sorridere. C’è bellezza. C’è come c’è nella Nike Samotrakis e nella Venere di Milo. Il dono con misura greco è qui.
(L’attrice Dianira canta la versione musicata del poema di Yannis Ritsos. Segue lettura della traduzione inedita di Nicola Crocetti).
Dagli splendori e le doglie del quinto secolo a.C. emerge l’energia portentosa, la violenza purificatrice della rivelazione tragica.
(Gli attori Baruk e Dianira recitano il quarto coro di Edipo re di Sofocle nella traduzione di Guido Ceronetti, contenuta nell’antologia Trafitture di tenerezza , Einaudi-Poesia)
E nel comprendere il tragico greco tutto il tragico è compreso; una conoscenza come quella basta alla comprensione del mondo. Sotto specie di tragico ogni pensare è concluso, e so bene che non può bastare. Il tragico ti blocca, ti anestetizza, ti svoglia dall’affrontare l’imperfezione e l’imperfettibiltà di tutto ciò che è infinito.
L’infinità cosmica o temporale o divina è aborrita dal tragico, è del tutto fuori dal suo comprenderci in un mondo finito, in quanto il tragico è compimento di uno o più destini - incluso tutto quel che può esserci, in un destino, di ulteriore - se quel compiersi predestinato non è la morte. Fortunatamente di Elladi ce n’è più d’una. Non quella soltanto che si è fissata nel dramma tragico. La Grecia alessandrina ha un altro volo, appena qualche secolo dopo. Ma aver dato nome e un linguaggio specifico e universale all’archetipo Tragedia (alla lettera: Canto del Caprone ) è una (o la) gloria della lingua greca.
Ma Dioniso, il Caprone errante, da dove viene?
Da quali Orienti? Io lo vedrei più figlio dello Shiva indiano, che della coscia di una divinità mascolina, ma la spietatezza, la perfidia che gli attribuisce Euripide nelle Baccanti è senza uguali (per alcuni, Dioniso è nato in Grecia o non lontano di là).
Il Dio manifesta la sua scarsa propensione al bene a partire da un verso (810) che per un attore può essere di una estrema difficoltà interpretare. Il testo del famoso ultimo dialogo Dioniso-Penteo comincia con un Alfa iniziale isolato che colpisce come una folgore e contiene, nell’elementarità di un suono vocalico, tutta la selvaggia smisuratezza dello smembramento di Penteo che seguirà tra poco: Quella A è una cesura fondamentale nella vicenda, che ne indica il decisivo mutamento per determinazione divina.
A, niente altro che una vocale da dire, ma con quanta energia e sudore di attore! Da quel momento il povero re di Tebe è un uomo morto.
La messinscena di un dramma greco è avvolta di un’aura di irrappresentabilità; anche quando viene fatta nei luoghi stessi e nella lingua propria. In abiti d’oggi, una mania registica, in traduzioni traballanti, non rivestiamo che dei disastri. C’era canto in eccesso, e l’Opera lirica non era lontana, le musiche perdute. Josef Svoboda il più grande degli scenografi, ha vestito coro e personaggi di Edipo re di costumi poveri e svolazzanti. Non sappiamo, da quelle non leggere maschere di scena, quanto fossero distinguibili le voci nei pomeriggi teatrali.
Dice Seferis che Cassandra, lei straniera, parla con un gallo nero nella strozza. Mi sono introdotto un gallo nella gola per furore onomatopeico, ma non ne è uscita la voce di Cassandra! Anche il gallo evangelico, che col suo canto ripetuto tre volte ricorda a Pietro il suo rinnegamento, non è un vispo galletto da pollaio. Bisogna provare e riprovare voci, esercitandosi nel bilinguismo, e i galli, in Italia come in Grecia, canteranno.
Esofago, l’interno della gola, deriva da uno dei verbi più tremendi del linguaggio tragico: sfágo , sfázo (macellare, scannare, ammazzare, massacrare, trucidare). Eschilo usa, nell’ Agamennone , il sostantivo terrificante da lui creato androsfaghíon (mattatoio d’uomini). Uno dei gridi di strada della vecchia Atene, Corfù, Tessalonica, dei venditori di angurie, era, e forse lo è ancora, óla tà sfázo , le sgozzo tutte, e il venditore mostrava quanto rosse e succose fossero. Una grande filologa contemporanea, Nicole Loraux, ne trattò in un saggio dal titolo terribile: Modi tragici di uccidere una donna , 1985, perché nei tragici le donne che muoiono uccise o suicide lo sono per impiccagione o per coltello di sacrificatore: morire di gola è la classica morte femminile per atti violenti (si tratti di Antigone o di cronache d’oggi). In Shakespeare, molto naturalmente muoiono per impiccagione e soffocazione lady Macbeth e Desdemona, e Giulietta per veleno ingerito.
Nei deliri della pazzia l’emissione di suoni dalle corde vocali richiamano sempre la gola, che la Loraux psicanaliticamente compara alla gola profonda uterina, profondità primaria, temuta, del corpo.
Il verbo sfágo , che è da sempre nella lingua dell’Ellade, ha corrispondenti biblici e in ebraico vivente: shachàt , shamàd . Lo shochèt è il macellaio rituale (colpo nella gola) delle sinagoghe (il vegetariano Isaac Singer ne aveva orrore) e l’angelo Maschìt è l’angelo Sterminatore. Shamàd è il verbo delle carneficine e della Distruzione.
Della pregnanza di questi verbi, che hanno inondato tutto ciò che c’è di più umano nelle lingue parlate e scritte, quando si mettono in scena i tragici, bisogna tener conto. Il verbo tragico, come la Strada Maestra di Dostoevskij, sempre contiene un’idea , e più d’una idea, ispira e abbozza scenografie meglio incollate al testo, è presa diretta di corrente nella vita.
Lo spettacolo termina con versi incantevoli da una delle grandi poesie di Giorgio Seferis, Epifania 1937 : «Mormorii nel silenzio sterminato / (Non so più bocca aprire né ragionare) / Trattengono in me la vita: / Di quella notte il respiro di un cipresso, / La voce umana dell’onda marina / Notturna sulla ghiaia, il ricordare / La tua voce e il suo dirmi Eftichìa », «Buona fortuna».