Pietro Citati, Corriere della Sera 6/11/2012, 6 novembre 2012
Lo scandalo della Regia dei Tabacchi e la fine di Cristiano Lobbia
Non ho bisogno di dire quello che penso delle ruberie, della corruzione, degli scandali, che oggi contaminano la vita italiana. Ma non amo il modo con cui la televisione e i giornali ne riferiscono: con volgarità, sfacciataggine, compiacenza, nascosta complicità, in modo che il racconto degli scandali diventa esso stesso uno scandalo. Ci sono pochissime eccezioni. La principale è quella di Gian Antonio Stella, che insieme a Sergio Rizzo dedica ai delitti politico-economici in Italia una serie di articoli sul «Corriere della Sera», e libri impegnativi. In Stella non c’è alcuna compiacenza, o tantomeno complicità. Quando egli scrive, gli innumerevoli delitti sono documentati uno per uno: analizzati con grande precisione; e ricondotti a un sistema, che li comprende e li spiega tutti. È un sistema tragico, di cui Stella non diminuisce mai la gravità o il peso. Ma, al tempo stesso, forma un’immensa farsa. Così, il riso rivela insieme l’esattezza spietata della mente che condanna, e la liberazione dai delitti, che vengono cancellati, annullati, forse resi impossibili per il futuro, dallo spirito del gioco. * * *
Con I misteri di via dell’Amorino (Rizzoli), Stella racconta con intelligenza ed estro uno scandalo misterioso e lontanissimo, che sembra gettare una luce sinistra sui delitti di oggi. Nel luglio 1868, il Parlamento diede via libera a una convenzione tra il ministero delle Finanze e Domenico Balduino, rappresentante della Società del Credito Mobiliare, a sua volta legata ad altri istituti di credito. Lo Stato cedeva per vent’anni la gestione dei tabacchi ad una società privata, che riconosceva alle Finanze una certa percentuale sulle entrate e anticipava alle pubbliche casse 180 milioni di lire. Era una convenzione iniqua. Giuseppe Lanza, presidente della Camera, la assalì in Parlamento: «Col combattere questa proposta di legge, difendo gli interessi generali delle Finanze». Attaccò «il sistema degli appalti in materia di imposte, perché aveva dato sempre gli stessi risultati: appaltatori impinguati, finanze stremate, ira popolare, rivoluzione». «Signori — concludeva — vi siete informati in prima in che condizione sia il Credito Mobiliare, quale sia il suo capitale effettivo, quale sia il corso delle sue azioni, de’ suoi titoli, quali sono gli affari che ha fatto da che fu istituito e come li abbia condotti?». La passione e la competenza di Giuseppe Lanza e di Quintino Sella non scossero la disciplina di partito. La convenzione andava votata. L’8 agosto il provvedimento passava, alla Camera, con 205 sì e 161 no. L’approvazione del Senato era certa. La cessione dei tabacchi a una società anonima che non si era mai occupata di tabacchi diventava legge. Lo stesso giorno Giovanni Lanza si dimise da presidente della Camera; e Vittorio Emanuele II, per evitare che i deputati continuassero a discutere intorno ai misteri della convenzione, chiudeva il Parlamento e mandava tutti in vacanza. Presto scoppiò lo scandalo. Il Natale del 1868, il «Gazzettino Rosa» di Milano pubblicò un articolo furioso. Qualche giorno prima, il deputato Luigi Zini, che proveniva dalla magistratura, aveva mandato una lettera al Lanza: «Si assevera che, per l’affare dei tabacchi, furono distribuiti diversi milioni, dei quali sei al re, e due tra sessanta deputati». Poi si diffuse la voce «che non meno di sei milioni si fossero distribuiti per comperare voti di deputati, che in numero di sessantacinque avevano messo al traffico la propria coscienza». Erano giorni di altissima tensione. Le piazze italiane erano percorse da cortei contro la tassa sul macinato, in vigore dal 1° gennaio 1869. Sassaiole, cori contro il governo, cariche di carabinieri a cavallo, morti e feriti. Francesco Crispi sosteneva che si trattava di un’imposta progressiva, non in proporzione della ricchezza ma della miseria. Malgrado le aspettative del governo, la tassa avrebbe reso quell’anno solo 28 milioni: circa un terzo rispetto ai 75 milioni previsti. Qualche mese dopo, nel giugno 1869, Giuseppe Ferrari, repubblicano e federalista, chiese la parola alla Camera: «Io chiedo nell’interesse di tutti e del Paese di aprire un’inchiesta sui fatti relativi alla Regìa dei Tabacchi». Il 5 giugno il maggiore Cristiano Lobbia, un onesto deputato di origine garibaldina, sollevò due grossi plichi chiusi con cinque sigilli rossi e li agitò in aria: «Annunzio solennemente alla Camera che posseggo dichiarazioni di testimoni, superiori a qualsiasi eccezione, le quali dichiarazioni sono a carico di un deputato nostro collega, e si riferiscono a lucri che avrebbe percepito nelle contrattazioni della Regìa dei Tabacchi». La commissione, composta di uomini della Destra, del Centro e della Sinistra, venne eletta; e il Lobbia fu convocato per il 16 giugno, per sapere cosa ci fosse in quei plichi misteriosi. La vigilia della convocazione, alla mezzanotte del 15 giugno, il Lobbia «transitava per via Sant’Antonio e stava per voltare in via dell’Amorino, dove abitava un suo amico, quando un uomo uscì dall’ombra, gli si avventò di fronte e gli vibrò un colpo di stile diretto al petto». Il ferito stramazzò a terra: l’assassino gli fu sopra di nuovo; e gli vibrò un secondo e poi un terzo colpo alla testa. Alla fine il Lobbia riuscì ad alzarsi in piedi, si voltò e sparò due colpi di pistola all’assassino, che fuggì, probabilmente ferito. Raccolto nella casa dell’amico, il Lobbia ebbe le prime cure da parte di un medico, il quale dichiarò che le ferite non erano mortali.
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Nel mese dopo il tentativo di assassinio, Cristiano Lobbia venne continuamente seguito e spiato: strani figuri sparivano dietro gli angoli delle strade, o sbucavano improvvisamente sulle scale. La magistratura tentava in tutti i modi di demolire l’attentato di via dell’Amorino, mettendo sotto accusa Lobbia e i suoi amici, che avevano costretto il Parlamento a votare l’inchiesta. Il 12 settembre 1869 Lobbia ricevette due mandati di comparizione, in cui gli si ordinava di presentarsi al tribunale il 15 settembre, imputato di simulazione di delitto. Il 26 ottobre cominciò il farsesco processo contro la vittima: il tribunale non diede tempo ai difensori di leggere le carte, rifiutò la necessaria autorizzazione della Camera prevista dallo Statuto albertino, e il ricorso di Lobbia in Cassazione. Il tempo a disposizione era pochissimo: incombeva la riapertura della Camera; la commissione teneva udienza tutti i giorni della settimana, mattina e pomeriggio, compresi i sabati, e persino il 2 novembre. Il minuzioso racconto di Stella è mirabile: tragico e comicissimo; ci ricorda da lontano le cronache giudiziarie di Dostoevskij, che vedeva nel processo e nell’odore di tribunale l’aspetto essenziale dell’esistenza. Tutti i magistrati nominati erano contrari a Lobbia. Tra i testimoni, i caffettieri, le domestiche, i fornai, i falegnami, i facchini, gli studenti e tre generali davano ragione a Lobbia; e quasi tutti rivelavano pressioni e minacce da parte della polizia perché cambiassero versione. I testimoni dell’accusa erano un sarto sepolto di debiti e ricattabile, la padrona, le ospiti e le cameriere di una casa di tolleranza, una poveretta che non era in grado di essere interrogata perché distrutta dalla sifilide, e poliziotti e mogli di ispettori di polizia e guardie daziarie e funzionari di questo o quel ministero, tutti sottoposti alle prepotenze dei superiori. Immersa in un’atmosfera di veleni, di sospetti e d’insinuazioni, la corte lesse il suo verdetto il 15 novembre 1869, due giorni prima della riapertura della Camera. Tranne uno, tutti gli imputati erano colpevoli. Un anno di penitenziario militare spettava a Cristiano Lobbia, accusato di essersi inventato tutto «perché venne a trovarsi nell’assoluta necessità di scuotere fortemente con qualche fatto la pubblica opinione». I suoi amici furono condannati a sei e tre mesi. Molte città d’Italia, a partire da Torino, furono invase da manifestanti, che sventolavano la bandiera italiana gridando: «Viva Lobbia! Viva Lobbia!». In occasione del parto di Margherita di Savoia, che diede alla luce il futuro Vittorio Emanuele III, il re decise di concedere un’amnistia. Ma Lobbia e i suoi amici la rifiutarono: volevano un nuovo processo per dimostrare la propria innocenza. Solo il 14 gennaio 1875, a Lucca, il nuovo processo stabilì che non esisteva alcuna prova per dimostrare che l’attentato era stato costruito da Lobbia. L’imputato venne assolto. Ma la sua innocenza venne quasi cancellata sui giornali, che avevano riportato con molto rilievo le accuse. La «Gazzetta Piemontese» diede la notizia in sette righe, senza neanche un titolo. Il «Giornale della Provincia di Vicenza» dedicò all’assoluzione un piccolissimo spazio nella penultima pagina, ultima colonna, senza titolo, tra la tabella dell’orario ferroviario e quella dell’accensione dei lampioni pubblici. Intorno all’affare della Regìa dei Tabacchi si moltiplicarono le morti misteriose: suicidi, annegati, accoltellati, avvelenati. Cristiano Lobbia non si riprese più dalla malinconia, dalla delusione e dall’avvilimento: si sentiva segnato e marchiato per sempre dalla condanna, che nulla poteva cancellare. Morì il 2 aprile 1876, a cinquanta anni, in una bellissima giornata di primavera. Fu sepolto ad Asiago, e subito dimenticato. Il suo gesso funebre fu gettato in un angolo. Nei primi anni del Novecento, alcuni compaesani decisero di cancellare questo oblio. Costruirono in pieno inverno, dopo che la neve era fioccata in abbondanza, un monumento a Cristiano Lobbia fatto di neve. Questo monumento fragile ed ironico restò lì, sfarinandosi sotto la tramontana, per qualche mese. Poi venne la primavera, portandosi via l’ultimo ricordo di quell’uomo buono e delicato, che i delitti della politica avevano distrutto.