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 2012  novembre 05 Lunedì calendario

NÉ SUPERMAN NÉ PADRE PIO


[Alex Zanardi]

Zanardi bambino: «E allora come faccio a far avverare i miei sogni?».
Il padre Dino: «Innanzitutto ascoltando. Se parli non ascolti, se non ascolti non impari».

E le medaglie dove le tiene?
«In cucina».
Come, scusi, «in cucina»? Stiamo parlando di due ori olimpici, più un argento, mai nessun italiano come lei, dico mai.
«È che sono fatto un po’ così, non so più neanche dov’è una coppa da venti chili che ho vinto alla 500 miglia del Michigan. Cinquecento miglia sono 800 chilometri, non so se mi spiego. Era bellissima».
Non dubito, ma l’oro di un’Olimpiade è il massimo dei massimi, e in cucina, ecco, con tutto il rispetto…
«Quando sono tornato da Londra, le ho messe un po’ sul letto, quelle tre medaglie. Le guardavo e non mi sembrava vero. Poi è arrivata un’amica di mia moglie, la Chicchi, che fa l’insegnante di ginnastica. Le ha prese in mano e si è commossa: “Oddio Sandrino”, diceva, “oddio cosa hai fatto!”. Piangeva, come davanti a una reliquia».
Si stringe le manone, perché ha due manone che levati, abbassa per un attimo la bella testa, poi mi punta con lo sguardo. «Comunque, voglio dirle una cosa: io, a Rio, ci sarò. Sì, certo, me lo dovrò guadagnare, ma ci sarò. E se ci vado, non è per vedere la spiaggia. Sa come si dice nel nostro ambiente: dal secondo posto in giù è come le balle dei cardinali».
Prego?
«Le balle ai cardinali non servono a niente, o almeno dovrebbe essere così».
Lei ha appena fatto 46 anni. Le Paralimpiadi di Rio, cioè i Giochi riservati ai disabili, sono nel 2016. Pensa sul serio di poter essere ancora competitivo a 50 anni, con tutto quello che ha passato? Di poter spingere la sua handbike più forte di un ragazzo di venti o di trenta?
«Sì, io tiro come una bestia».

Sandrino Zanardi, detto Alex, classe di ferro 1966, da Castelmaggiore di Bologna, figlio di Dino l’idraulico e Anna casalinga e camiciaia, marito di Daniela (il biondo angelo custode di una vita) e padre di Niccolò, è la cosa più prossima a un eroe che io abbia mai visto da vicino. Nel 2003, due anni dopo il suo big bang, il Presidente Ciampi lo nomina Cavaliere della Repubblica. Gran cerimonia al Quirinale, lui dritto sulle sue gambe di riserva, Ciampi che legge compunto la menzione ma poi mette da parte i fogli che gli avevano preparato, va da Sandrino, lo accarezza e gli dice: «Lei è un faro per i giovani, e non solo per loro. Ma la prego, Zanardi, d’ora in avanti si voglia un po’ di bene».
Sa che circola una raccolta di firme per convincere Napolitano a nominarla senatore a vita?
«Ma no, non mi sento pronto, non è il mio. Pensi che la prima volta ho votato Craxi perché mi sembrava uno con la faccia onesta... E poi, se scambio il Darfur per una scatola di cioccolatini, da uomo di sport ci sta anche. Ma da politico, dai, che figura di merda».
L’uomo che visse, e vinse, due volte ha dei clamorosi occhi blu allenati al sorriso e braccia allenate alla forza. Non bastasse tutto quello che ha fatto e farà, ha debuttato il mese scorso nella conduzione della nuova edizione di Sfide su Rai 3. Esordio col botto: puntata dedicata a Gilles Villeneuve, uno dei suoi idoli da bambino, un milione e mezzo di spettatori, 9 per cento di share. Avanti così, e presenta Sanremo. Passa Emma, la suocera: «Sandrino, ti ha visto in tv una mia amica, che ti ha trovato bellissimo. Continuava a ripetermelo: ma è bellissimo! Ha 70 anni, la mia amica, ma è pur sempre il complimento di una donna e vale doppio».
Siamo nel patio del giardino della villa appena fuori Padova dove Alex vive con moglie (che è di lì), figlio sedicenne e cane, un grosso pastore tedesco timido. Davanti a noi, un grande giardino, una piccola piscina e, sul lato sinistro, seminascosto tra gli alberi, un capanno di legno scuro, che è l’antro dove tutto è ricominciato e dove riposano, in attesa del prossimo allungo, pezzi di handbike, catene, pignoni, pedivelle, telai. «Mi chiedeva degli ori di Londra... Ecco, per molta parte vengono da là dentro, dalle ore, dalle sere, dalle sveglie passate in quel capanno a mettere a posto un dettaglio, dare un senso pratico a un’intuizione, trovare una soluzione tecnica che mi permetta di sviluppare meglio la potenza, di essere più veloce: di me prima della modifica, degli altri in gara».
L’handbike, in inglese lo dice il nome stesso, è una strana bicicletta con tre ruote, che va avanti spinta con le mani invece che con i piedi. Con quell’affare lì, «tirando come una bestia», Zanardi ha vinto il titolo italiano, sbancato Londra, trionfato alla maratona di New York con il record del percorso: un’ora, 13 minuti e 58 secondi per i 42 chilometri e rotti più famosi al mondo, toccando punte di 70 allora giù dal ponte di Verrazzano. Un record così pazzesco che gli organizzatori hanno pensato bene di escluderlo dalla prossima edizione. Potrà iscriversi solo chi ha un personale di un’ora e 25. «Dicono che è per ragioni di sicurezza, ma francamente mi sembra una balla coi fiocchi. E poi non capisco bene. Il motto dei Giochi dedicati a noi disabili era: Inspire a generation, dare l’esempio che si può, sempre, che uno può inseguire il suo sogno anche se gli manca un pezzo, o due. A Londra ho visto una ragazza senza braccia che nuotava come uno squalo, mi ha fatto venire la pelle d’oca e la voglia di fare di più, ancora di più. Non so se questo sentimento a New York è arrivato. A occhio, non direi».

Zanardi si nasce? Sì, ma fino a un certo punto. La verità, sconvolgente e consolante insieme, è che Zanardi si diventa. E che la vita può davvero ricominciare a quarant’anni (o a cinquanta, ventisette, sessantuno, fai tu). Nel suo caso, la prima vita è finita il 15 settembre 2001, quattro giorni dopo lo Strazio delle Torri Gemelle. Ed è finita in un modo letteralmente straziante.
«Una volta ho visto quel film, Nato il 4 luglio, con Tom Cruise ridotto su una carrozzella dalla guerra. Ricordo di aver pensato: se succede a me, mi ammazzo».
Crede in Dio, o qualcosa del genere?
«Qualcosa del genere».
Il 15 settembre 2001 è un sabato tedesco, pioggia a raffiche, vento che l’asciuga, e ovunque la scia d’angoscia del dopo New York. Il circuito è quello del Lausitzring, fra Dresda e Berlino. Quattro mesi prima ci ha lasciato la pelle Michele Alboreto, ex pilota della Ferrari: stava facendo un test con la Audi, gli è scoppiata una gomma. Brutto clima, in generale. Sei gare alla fine del Mondiale di formula Cart (la vecchia Indy), la più amata dagli americani. Che amano molto anche Zanardi, per il suo modo spavaldo di guidare, per i due titoli che ha conquistato, perché è uno che ha solo la sesta marcia in testa e non molla, non calcola, si infila in ogni fessura pur di provare a passare l’avversario.
Alex arriva a quel sabato non sapendo di sapere che la sua voglia di correre s’é spenta, come un motore. È pilota da ormai quasi vent’anni, ha vinto tanto, perso tanto, “appiccicato” un sacco di macchine ai muri, tentato sorpassi che l’hanno reso leggendario e fallito posti sul podio per sfighe o cazzate che sono il sale e le ferite di questo mestiere. Ha sulle spalle di tutto, dai kart da ragazzino (due titoli italiani e due europei) a 44 Gran Premi in Formula Uno. Potrebbe lasciar correre le ultime corse. Potrebbe.
A 13 giri dalla fine è in testa alla grandissima. Si ferma ai box per l’ultimo rabbocco di benzina, tutto perfetto, meccanici col pollice sollevato, si va verso la vittoria. Ma la sua Reynard Honda la pensa diversamente. Ali’improvviso gli scappa di mano nella corsia di accelerazione, si gira, si rigira, finisce di traverso sulla pista, orizzontale, con la parte più fragile, il fianco, esposta come Cristo in croce. Alex Tagliani, un canadese di origini bresciane, gli arriva dentro a 320 chilometri allora e lo apre in due. «Devo aver realizzato qualcosa solo quando, a un certo punto, ho guardato davanti: non c’era più la macchina e nemmeno le mie gambe». Amputazione bilaterale. Fine della prima vita.
La seconda comincia in un ospedale di Berlino, appena un litro di sangue rimasto in corpo, la moglie Daniela che gli sussurra «amore, resisti». Zanardi resisterà. A tutto. Sette arresti cardiaci, 15 interventi chirurgici, la coscienza di quel che gli rimane, di quel che ha perso. Un mese e mezzo dopo, la prima conferenza stampa: «Sono fiducioso che presto o tardi potrò tornare a camminare, a prendere il mio Niccolò sulle spalle». Pausa. «E magari tornerò anche a correre, da qualche parte, in qualche modo». Per esempio, al Lausitzring: nel 2013 si rimette in pista e copre i 13 giri che gli mancavano alla fine della gara. Non da vecchia gloria. Da pilota: oltre i 300 orari di media.
Zanardi, come si fa?
«Non sono Superman e nemmeno Padre Pio. Ho patito l’inferno nei centri di riabilitazione, ho visto molti altri patirlo. Persone che si arrendono sfinite dal dolore, dalla disperazione. Ma le cose possono essere fatte. L’importante è desiderare. E io ho desiderato tanto».
Da bambino?
«Un go-kart. Me ne ero costruito uno da solo, con dei tubi da mezzo pollice che papà teneva a casa, più quattro ruote rubate a un cassonetto dell’immondizia. Quando l’ha visto, papa si è incazzato come un puma per via delle ruote: le ho riportate subito al cassonetto. Poi però il primo vero go-kart me l’ha regalato lui: meglio quello che il motorino, diceva, si sta più sicuri, si guida in pista, col casco. Era un uomo forte e speciale, mio padre. Mi ha seguito ovunque, ha lavorato con me ai motori, alle modifiche dei telai, delle sospensioni. In capanni come quello lì nel parco, anche di notte. Se prendo una pinza a pappagallo, ormai vedo che la mia mano è come era la sua. E mi emoziono».
Che cosa le piaceva dei go-kart?
«L’idea di stare basso, vicino all’asfalto».
Se ci pensa, l’handbike è una specie di ritorno alle origini: sta bassa.
«E dire che l’ho scoperta per caso. Stavo in un grill verso Ventimiglia, sarà stato il 2007. Incontro un tipo con una lesione spinale. Sul tettino dell’auto ha quella strana bicicletta. “Questa qui, se la provi, non scendi più”. L’ho provata su un argine del Po, aveva ragione lui. Adesso con Vittorio Podestà corriamo insieme, in nazionale e per il Barilla Bluteam. La seconda vita...».
Un paio di cose che la legano alla prima?
«Un paio? Molte di più. Mia madre Anna, per esempio. Da piccolo, di notte, sentivo il ticchettio della sua macchina da cucire, camicie su misura, asole fatte a mano. Qualche volta la raggiungevo con una coperta, lei mi cantava qualcosa sottovoce e mi riaddormentavo lì. È stata ed è per me, per il mio Niccolò, una presenza costante e buona. Dicono che le somiglio tanto. Oh, sì, pensi che alla sua bella età va ancora a ballare».
La mamma. Poi?
«Lo sport, il piacere di quella gocciolina di sudore sulla fronte, l’idea di andare, andare, sfidarsi. Io sono drogato di sport, di sfide. Anche se c’è da aprire un barattolo che non si apre: per me diventa subito un braccio di ferro col coperchio. Quanto valgo oggi? Quanto posso valere di più domani? Il mio amico Paolo Barilla dice che ho una testa da kaizen. Che non vuoi dire testa di cazzo, anche se, per carità, ci starebbe anche. È l’unione di due parole: kai, cambiamento, e zen, miglioramento. Mi ci ritrovo».
Qualcosa che è cambiato, appunto, tra la prima e la seconda vita?
«A parte i 14 chili di gambe in meno?».
A parte.
«Quando correvo fino ai 400 allora sulle piste di tutto il mondo, ero io da solo. Adesso, su quell’handbike, c’è mezza Italia che spinge con me. Sento che la gente mi vuole bene. Ma, in fondo, non ho fatto niente di speciale. Ho preso la bicicletta. E ho pedalato».
P.s.: Zanardi mi accompagna alla porta reggendosi alle stampelle. Ci tiene a regalarmi due libri. ...Però, Zanardi da Castel Maggiore!, scritto con Gianluca Gasparini, giornalista della Gazzetta dello Sport (Baldini Castoldi editore) e Alex guarda il cielo (Fucina editore), in collaborazione con Claudio Marcello Costa, il dottore dei piloti. Prima di portarli via e saccheggiarli, gli ho dato due baci sulle guance.