Alberto Mingardi, Il Sole 24 Ore 4/11/2012, 4 novembre 2012
LA FEDERAL RESERVE È DA BOCCIARE
Negli scorsi anni, abbiamo imparato a guardare alle banche centrali come all’unica fonte di salvezza, nelle turbolenze della crisi. Ma quella della Federal Reserve, di gran lunga la banca centrale più importante del pianeta, può essere considerata una storia di successo? George Selgin (University of Georgia), William Lastrapes (University of Georgia) e Larry White (George Mason University) rispondono di no in un paper importante, Has the Fed been a failure?, che il «Journal of Macroeconomics» affianca a una serie di commenti autorevoli (Michael D. Bordo, Benjamin M. Friedman, Robert L. Hetzel, Allan H. Meltzer, e Jeffrey Miron). Selgin e White sono forse i più noti teorici contemporanei del free banking, ovvero di un sistema monetario privo di un monopolista dell’emissione di valuta. Proprio perché si tratta di posizioni largamente minoritarie, nell’ultimo secolo (anche se non prive di esponenti illustri, a incominciare dall’Hayek sostenitore della «denazionalizzazione della moneta»), è interessante che il «Journal of Macroeconomics» decida di festeggiare l’imminente centenario della Fed (1913-2013) ponendole al centro di un simposio.
Selgin, Lastrapes e White considerano la Fed «una delle banche centrali di maggior successo al mondo», ma ammoniscono che ciò di per sé non ci dice nulla sulla sua «absolute performance». Per valutarne successi e fallimenti, fanno riferimento al Federal Reserve Act of 1913 con il quale venne posto in essere il Federal Reserve System. Gli obiettivi principali, chiaramente definiti, erano quelli di «garantire una valuta elastica, offrire mezzi per ridiscontare titoli di credito commerciali e istituire negli Stati Uniti una vigilanza più efficace del sistema bancario». Se, come ammonisce il maggiore storico della Fed, Allan Meltzer, la storia di questa istituzione va divisa in un "prima" e in un "dopo", con lo spartiacque segnato dall’abbandono della convertibilità aurea, la stabilità monetaria e quella del sistema finanziario possono essere considerati in modo non controverso gli obiettivi di un sistema incardinato su una banca centrale.
Per Selgin, Lastrapes e White, «sotto un particolare aspetto, la Fed ha platealmente fallito: ben lungi dal garantire una stabilità dei prezzi di lungo periodo, ha permesso che il potere d’acquisto del dollaro, che all’epoca della creazione della Federal Reserve era di poco diverso da quello del periodo della sua introduzione come valuta ufficiale del Paese, si riducesse drammaticamente». Un paniere di beni di consumo che nel 1790 sarebbe costato 100 dollari, nel 1913 si sarebbe venduto a poco più di 108 dollari. Ma a partire da quella data il prezzo è cresciuto vertiginosamente, raggiungendo i 2.422 dollari nel 2008. «La più parte del declino del potere d’acquisto del dollaro – sostengono i tre economisti – ha avuto luogo a partire dal 1970», quando la fine del gold standard coincise con l’abolizione di ogni «vincolo esterno» sul potere di battere moneta.
Se la Fed ha fallito nel prevenire l’inflazione, invece ha avuto successo, dalla Grande Depressione in avanti, nell’eliminare la deflazione: periodi di deflazione erano piuttosto comuni, nel sistema monetario statunitense prima della Federal Reserve.
Selgin, Lastrapes e White invitano però a calmierare l’entusiasmo: la deflazione può essere «buona» o «cattiva».
La seconda «rappresenta il risultato della contrazione della spesa complessiva, ovvero della domanda aggregata di beni in una situazione di prezzi rigidi. Cercando di riassestare il proprio bilancio, le persone destinano una parte minore del proprio reddito all’acquisto di beni. La debolezza della domanda provoca l’accumulo di giacenze di beni invenduti, scoraggiando la produzione». La prima, invece, «è causata da miglioramenti nell’offerta aggregata, vale a dire da una riduzione generalizzata del costo di produzione unitario, il che permette di realizzare una maggiore quantità di beni a parità di fattori di produzione e che, pertanto, tende a rispecchiarsi rapidamente in un corrispondente aggiustamento dei prezzi reali».
Meltzer sottolinea al contrario come la Fed abbia contribuito ad almeno due periodi di espansione economica caratterizzati da bassa inflazione, nell’immediato dopoguerra e poi nell’era Volcker, quando le sue politiche monetarie erano coerenti con la cosiddetta Taylor Rule, formula che si deve all’economista John Taylor e che "regolamenta" l’espansione monetaria. Per Selgin, Lastrapes e White, si tratta di una lettura benevola dell’era Volcker-Greenspan. Essi sostengono che quel periodo non fu effettivamente contraddistinto da un maggior rispetto di regole chiare e trasparenti da parte della banca centrale, ma semmai da una «discrezionalità illuminata».
La discrezionalità del banchiere centrale crea incertezza. Lo spiega bene Allan Meltzer: in cent’anni, la Fed «non ha mai sviluppato una regola esplicita che governasse la sua risposta alle crisi e alla fragilità finanziaria. L’assenza di una regola o di una politica concordata acuisce l’incertezza in merito alla risposta della Fed e spinge i banchieri a cercare un sostegno politico per ottenere l’assistenza della Federal Reserve».
Questa sottolineatura degli aspetti istituzionali dell’interazione fra banca centrale e regolati è purtroppo assente dai contributi ospitati dal «Journal of Macroeconomics». Ma resta, per così dire, sullo sfondo. Che gli uomini non siano angeli è pacifico: un po’ meno, di questi tempi, che anche i banchieri centrali sono uomini come tutti gli altri. Anche per questo motivo, secondo Selgin, Lastrapes e White, un sistema finanziario lasciato a se stesso avrebbe magari vissuto crisi più frequenti, ma meno intense, di quelle subite dagli Stati Uniti in cent’anni di banca centrale. Della Fed, diceva uno che l’aveva studiata a fondo, Milton Friedman: «Tra le istituzioni degli Stati Uniti, nessuna ha avuto prestazioni tanto scadenti per un periodo tanto lungo eppure una reputazione così elevata».