Carlo Ossola, Il Sole 24 Ore 4/11/2012, 4 novembre 2012
LE PAROLE PREVISTE DALLA CRUSCA
Il Vocabolario per antonomasia ha 400 anni. Ma non li dimostra. Venne in uggia ai romantici e il Foscolo lanciò i suoi strali «a’ reverendi grammatici e ai cruscanti accaniti»; ma non lo meritavano gli accademici i quali, anzi, nell’avviso «A’ lettori», osservavano: «Non è stata nostra intenzione di fare scelta di vocaboli disperse, ma di raccorre e dichiarare universalmente, le voci e maniere di questa lingua: però non abbiamo sfuggito di metterci le parole o modi bassi e plebei, giudicandogli noi necessari alla perfezione di essa, per comodità di chiunque volesse usargli nelle scritture, che gli comportano. Di queste tali maniere abbiam proccurato d’elegger quelle di miglior lega, proprie e significanti, e per distinguerle, abbiamo detto molte volte, voce bassa, modo basso, ec. Come nella voce accoccare e nella voce putta». Insomma «quell’atto che fa la bertuccia», essendo universale, merita di essere attestato.
È un principio di metodo che giova, ancor oggi, sottolineare: i nostri vocabolari divengono sempre più descrittivi, permeabili, ricettacoli dell’effimero, corrono dietro al neologismo anziché all’universale: il vocabolario si vuol caudatario del nuovo, anziché gubernator di tutto ciò che può esser condiviso per divenire «lingua comune», cioè «bene comune», «patrimonio» di una nazione. Alla voce «Nuovo» gli Accademici annotavano con garbata sapienza un bell’esempio del Boccaccio: «Calandrino cominciò a guardar la Niccolosa, e a fare i più nuovi atti del mondo» (Decameron, IX, 5). Ben sappiamo come finirono «cotali ciance» e non sarà un caso che la maggioranza delle attestazioni che il Vocabolario della Crusca fornisce per "nuovo" vengano appunto dai detti e gesta di Calandrino. E sarebbe ottima lezione, per converso, osservare quanto gli Accademici dicono di universale, e soprattutto di «Università»: «Il comune, tutto ’l popolo d’una città». Quanto strada s’è smarrita! E quanto, anche, si sono ristretti gli usi, nel loro più urgente impendere; si prenda soltanto «Evacuare», che oggi non è troppo polisemico; e neppure per i nostri Accademici, che tuttavia ad altra mira tendevan lo sguardo: «Evacuare. Votare, cavare, far vacuo. Moralia San Gregorio: Le profezie saranno evacuate, e le lingue cesseranno, e la scienza fia distrutta cioè scancellate per adempimento». Mirabile chiosa!
Il cimento insomma era sempre per «tendere il senso» all’orizzonte più ampio del "predicabile", anche nella filologia.
Gli Accademici avevano procurato nel 1595 un’edizione accurata, collazionata su un notevole nucleo di codici, della Divina Commedia; Domenico De Martino ne fornisce ora una presentazione intelligente e ricca di futuro (preziosissime le chiose a margine degli Accademici stessi). L’edizione è un teste esemplare per misurare il mutarsi della «visione concettuale» dalle categorie medievali a quelle moderne: basti un solo esempio, nel canto XXX del Paradiso: l’edizione propone, al verso 27: «la mente mia da sé medesma scema» (ed è correttissimo nella teoria d’amore medievale: il «rimembrar del dolce riso» aliena la mens da se medesima, ed è atto tutto mentale); mentre l’uomo del Rinascimento, ormai ragionando dentro la «nascita del soggetto» (sono i tempi di Montaigne), corregge: «la mente mia da me medesmo scema», che è incongruo rispetto alla filosofia d’amore, ma aderente al tempo del lettore; e tale il verso è rimasto sino ad oggi, all’edizione Petrocchi.
Ma il fascino del Vocabolario è anche nella sua tradizione, negli esiti di chi provò a sanarne le lacune, ad aggiornarne le definizioni. Su tutti va citato il Manzoni, il quale si cimentò in un Saggio di un vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze, preparato insieme a Gino Capponi e databile al 1856. Il Saggio si arrestò dopo 98 lemmi ad «Abbenché»; e nella sobrietà delle definizioni, appena un poco il Manzoni fa indugio su una voce, su una scena su cui si erano chiusi I Promessi Sposi, ai quali quell’«Abballottare» sarebbe stato, per i «bambocci» di Agnese, gesto compiuto ma parola troppo espressivamente affettuosa: «Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo "cattivaccio"» (Fermo e Lucia, IV, IX); «Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e del l’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo» (I Promessi Sposi, capitolo XXXVIII). Così appunto tornerà a mente il romanzo, e tanti gesti mancati, quando il Manzoni avrà a definire: «Abballottare. Maneggiare un po’ alla strapazzata, volgere in qua e in là. Si abballottano i bambini quando si palleggiano amorosamente, ruzzando con essi». Fu un leggero trasalimento della memoria, nell’anno in cui moriva a Siena di tisi la figlia Matilde, insalutata.