Cristina Battocletti, Il Sole 24 Ore 4/11/2012, 4 novembre 2012
BRILLANTI SCATTI DALLE TENEBRE
Sostiene di non essere mai diventato completamente cieco Evgen Bavcvar, fotografo e filosofo di origini slovene, ma ormai cittadino parigino da oltre quarant’anni. Spiega di essersi smarrito in una delle ultime immagini impresse nella memoria a dodici anni, quando perse la vista di entrambi gli occhi. Erano i tardi anni Cinquanta, il piccolo Evgen era reduce da un doppio incidente: la frustata di un ramo che aveva danneggiato irreparabilmente l’occhio sinistro a dieci anni e due anni dopo lo scoppio di un detonatore che aveva compromesso anche quello destro. Nel periodo che precedette l’oblio completo cominciò a immagazzinare più suggestioni possibile del suo amatissimo Paese. Prati, sentieri e montagne assieme a scorci della vicina Lubiana: tramvai, strade affollate, profili cittadini. Sopra a tutto poterono però i capelli corvini di una bimba, legati a coda di cavallo, acconciatura tanto esotica per un ragazzino nato e cresciuto nel piccolo paese di Lokavec, da far decidere a Evgen di lasciarsi abbandonare all’oscurità, confondendosi in quei crini d’ebano.
Sa addolcire i colpi bassi della vita con un piglio sornione Bavcvar, poliglotta con in tasca una laurea in filosofia all’università di Lubiana e un dottorato in estetica alla Sorbona. Un’ironia in sfida continua con i propri limiti: «Fare il fotografo è l’impresa più proibitiva per un cieco – spiega Bavcvar –. La prima volta che presi in mano una macchina fotografica avevo 16 anni: era la Zorki sei di mia sorella Marija. Fotografai due ragazze, di cui mi ero innamorato perché tutti mi decantavano la loro bellezza, e quando il tecnico sviluppò il rullino gridò al miracolo».
Da quell’esperimento nacquero molte altre foto, che accompagnarono un’esistenza puntellata dalla difficoltà di farsi accettare in una società che ormai lo considerava diverso. All’epoca, la sua condizione di non vedente lo avrebbe inchiodato a un destino da centralinista, attività in cui si era anche cimentato e a cui si ribellò la sua natura di studente dotatissimo. Per frequentare il liceo di Nova Gorica, osteggiato da un direttore contrario alla sua ammissione, passò quattro estati a tradurre i testi scolastici in brail, imparato all’istituto dei ciechi. Vinse la sua determinazione e fu uno dei pochi allievi a ottenere la maturità con una nota di eccellenza. «Ho sempre combattuto contro la discriminazione. Noi occidentali abbiamo dimenticato la lezione dei greci, che, attraverso la figura del preveggente Tiresia, consideravano la cecità simbolo della trascendenza». Dopo una breve pausa come insegnante, nel 1972 si recò a Parigi con una borsa di studio alla Sorbona, grazie a cui divenne ricercatore in estetica presso il centro nazionale per la ricerca scientifica francese. «Oggi non posso separare più la fotografia dalle mie conoscenze in filosofia, in particolare dagli studi su Bloch, Adorno e Benjamin. Le immagini che creo sono frutto di una riflessione: anche noi ciechi abbiamo diritto all’immagine, a costruire uno specchio interiore».
Nell’87 si tenne la sua prima mostra a Parigi – fino al 28 novembre è in corso un’esposizione alla Fnac di Montparnasse – e poi in tutto il mondo, dall’Italia, alla Germania, al Brasile, al Canada, al Messico (www.zonezero.com/exposiciones/fotografos/bavcar/index.html), dove ha ricevuto la laurea honoris causa presso l’istituto degli studi critici, cui si aggiunge quella in fotografia ottenuta presso l’ateneo di Nova Gorica.
Poesia, innocenza, onirismo, garbate facezie convergono in queste opere d’arte, che hanno la luce al loro centro. «Io vivo nel buio e devo illuminare le immagini con lo spirito del terzo occhio, una lampada speciale che ci permette di vedere nei sogni». Una bambina, l’amata nipote Veronica, ormai mamma, abbraccia un peluche mentre lo sguardo è rivolto verso il basso. Lembi luminosi graffiano il ritratto in senso circolare, creando un movimento morbido, quasi una bolla per immunizzare la purezza. C’è l’amico Boris Pahor, immortalato al memoriale del lager di Struthof, dove lo scrittore sloveno fu internato. Vi è il cancello chiuso della casa natale di Lokavec, ora inutilizzato, oltre cui una volta si aprivano i campi e oggi è tangente a una strada molto trafficata. È il simbolo della prigionia della speranza, liberata da rondini sfavillanti. E ancora, lui stesso che imbraccia una fisarmonica, i cui contorni sono pennellati da bagliori. «Ho suonato questo strumento, spesso associato dall’opinione comune alla cecità, per dodici anni. Ci hanno appoggiato sulle ginocchia una fisarmonica, per non farci sedere una bella donna».
Molte sono le figure femminili che posano nelle opere di Bavcvar, tra cui Kristin Scott Thomas e Hanna Schygulla, alla cui immagine l’artista ha associato una civetta, simbolo della saggezza. C’è la modella, sul cui corpo nudo si sovrappongono mani fulgide «a proteggere la fragilità della bellezza, minacciata dal tempo, condannata alla morte». Scie tremolanti indugiano su tavoli, sedie e figure sdraiate a rappresentare l’aura lasciata dalle persone.
Di solito Bavcvar lavora di notte, accompagnato a volte «da amici dallo sguardo libero», con piccole lampade da tasca grazie a cui crea luccicori, che spesso aggiunge dopo lo scatto, «ma questi sono segreti d’artista», taglia corto laconico. Il prossimo sogno su pellicola è quello di cimentarsi in un museo di automobili in Italia. Quanto alla vita, vuole cavalcare una moto Guzzi 500. L’Honda e la bicicletta sono sfide già risolte.