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 2012  novembre 04 Domenica calendario

QUANDO L’IGE FACEVA SOFFRIRE L’INDUSTRIA ITALIANA

Anno 1956, studi televisivi di Rai 1. È in onda "Lascia o Raddoppia" e Mike Bongiorno fa al concorrente l’ultima, fatale domanda: «Che cosa significa la sigla I.G.E.»? Il concorrente ci pensa e poi, con un largo sorriso risponde: «Istituto Generale Elettricità»! Non sapeva il malcapitato, e forse neanche Mike Bongiorno se non l’avessero istruito prima, che la sigla Ige era l’acronimo di Imposta Generale sull’Entrata, un’imposta (non tassa, vedi articolo a fianco) introdotta nel 1940 dal ministro delle Finanze Paolo Ignazio Thaon de Revel. L’imposta serviva a tassare tutti i passaggi del ciclo produttivo di un bene o di un servizio.
L’Ige, espressione di un’economia quasi preindustriale, intervenendo sulla filiera produttiva a ogni passaggio, senza consentire la detrazione del tributo assolto sugli scambi precedenti, creava vere e proprie distorsioni a cascata sulle fasi di lavorazione, ma anche sul prezzo finale che il consumatore pagava. Facciamo un esempio: se sono un produttore di coltelli, o di bambole, devo procurarmi la materia prima per poterla poi trasformare nel prodotto finito. Acquisto quindi acciaio o celluloide; macchinari per poter piegare l’acciaio nella forma voluta o, più semplicemente, fornelli per riscaldare la celluloide e piegarla tanto da formare braccia e gambe della bambola; materiale vario per i manici del coltello o per dipingere occhi e bocca sulla bambola e così via fino al prodotto finito. Ebbene, a ogni passaggio l’Ige era in agguato: sulla compravendita iniziale del materiale si pagava l’imposta, ma poi quando il materiale era lavorato da una macchina, si pagava l’imposta sulla macchina, che si aggiungeva quindi a quella già pagata sul materiale, tanto che sul semilavorato gravavano già due imposte diverse, per non parlare delle altre imposte tutte da pagare in ogni singolo momento della lavorazione e della distribuzione.
Se per tutte le manifatture il processo di produzione fosse stato simile, allora il peso dell’imposta da pagare, per quanto grave, sarebbe stato distribuito in maniera equa: insomma mal comune, mezzo gaudio. La situazione invece, penalizzava la filiera cosiddetta orizzontale, mentre favoriva la filiera verticale. In un periodo in cui i modelli economici stavano cambiando rapidamente e si passava dalla fabbrica totale, nella quale il prodotto era creato all’interno dall’inizio alla fine (filiera verticale), a modelli produttivi in cui operatori specializzati si dividono i vari pezzi della lavorazione (filiera orizzontale), l’imposta diventava sempre più iniqua e difficile da sostenere per molte industrie. Dobbiamo aggiungere che l’imposta gravava solo sui beni prodotti e consumati in Italia, mentre non era prevista per i beni esportati.
Tali inconvenienti erano distorsivi per la libera circolazione delle merci, tanto che, con molto ritardo rispetto all’evoluzione del sistema produttivo, e su pressione della Comunità Europea, il primo gennaio del 1973 l’Ige fu sostituita dall’Iva, Imposta sul Valore Aggiunto (vedi l’articolo a fianco), che grava sul consumatore finale. Chissà se i concorrenti dell’Eredità, sempre su RAI1, saprebbero oggi rispondere esattamente a una domanda sull’Iva: suggeriamo a Carlo Conti di provarci.