Morya Longo, Il Sole 24 Ore 4/11/2012, 4 novembre 2012
ECONOMIA REALE E FINANZA SEMPRE PIÙ DISTANTI
«Bailout people, not banks». «Salvate la gente, non le banche». Quando gli americani, a ridosso del crack di Lehman Brothers del 2008, scesero per la prima volta in piazza per protestare contro i denari pubblici spesi per aiutare le banche Usa (da allora lo Stato ha tirato fuori 2.853 miliardi di dollari, di cui 1.687 nel frattempo recuperati), forse sapevano di soffiare contro i mulini a vento. E infatti così è stato: da allora la politica monetaria ultra-espansiva della Fed e la gestione degli aiuti della Casa Bianca (sin dall’epoca Bush) ha certamente salvato Wall Street, ma a scapito della società civile.
Se da un lato la Borsa Usa è già tornata sui massimi dal 2007 e le società quotate hanno macinato utili record, dall’altro la povertà negli Stati Uniti ha toccato il record storico crescendo del 23,8% dal 2007, la disoccupazione è al 7,9% e il reddito disponibile dell’americano medio è sceso al minimo dal 1995. Che vinca Obama o Romney, insomma, la sfida del futuro presidente sarà questa: fare i conti con le diseguaglianze sociali, con la forbice tra Wall Street e l’uomo della strada. Il rischio, altrimenti, è che le tensioni sociali esplodano.
Main Street soffre
I "semi" della crisi ci sono tutti. Secondo i dati del Census Bureau del Dipartimento del Commercio, il reddito medio delle famiglie americane è di 50.054 dollari (il dato appare nell’ultimo studio del 2012, ma si riferisce al 2011): questo significa che è calato dell’8,1% rispetto al 2007, quando iniziò la crisi finanziaria, e dell’8,9% rispetto ai massimi del 1999. Il problema è che la torta non solo è diventata più piccola, ma è sempre peggio distribuita. Tutti gli indicatori mostrano infatti che le diseguaglianze sociali negli Usa sono cresciute. Nel 2011 il 5% della popolazione deteneva il 22,3% della ricchezza, mentre il 60% più povero della popolazione si spartiva una fetta simile (pari al 25,9% della ricchezza).
Questo si traduce ovviamente in un aumento consistente della povertà. Nel 2011 – calcola sempre l’Us Census Bureau – negli Stati Uniti c’erano 46,5 milioni di poveri, su una popolazione totale di 314 milioni di persone: si tratta del record dal dopoguerra. Ma, soprattutto, si tratta di un aumento del 23,8% rispetto al 2007. Ma c’è un altro dato che colpisce: l’indice della Fed di St Louis. Questo indice mostra che attualmente i salari degli americani ammontano ad appena il 43% del Pil Usa: si tratta del minimo storico. Mai i salari erano stati così bassi in rapporto al Pil. Questo significa che i «bailout», i salvataggi, non si sono fatti sentire tra i lavoratori dipendenti. Tra la classe media.
Wall Street gioisce
Questo sarebbe un problema accettabile se anche il mondo finanziario continuasse a soffrire. Se la crisi, nata dalla finanza, fosse rimasta anche a Wall Street. Però non è così. E proprio questo contrasto rischia di diventare, per il futuro presidente, una patata bollente. L’indice S&P 500 della Borsa di New York è attualmente sui massimi dal 2008, ma poche settimane fa era tornato addirittura sui livelli di fine 2007. Dai massimi storici toccati il 9 ottobre 2007, Wall Street perde oggi solo l’8,9%. Ma dai minimi toccati il 9 marzo 2009 ha recuperato il 110%. Non male per una crisi "finanziaria".
E anche le società quotate a Wall Street se la passano bene. Secondo le banche dati di Bloomberg, gli utili per azione delle aziende incluse nell’indice S&P 500 sono aumentati del 13,9% dal 2007 al 2011 e – stando alle stime – dovrebbero crescere in totale del 23,9% al 2012. Dal 2009 al 2010, anni in cui Fed e Casa Bianca hanno pompato più aiuti, gli utili delle aziende Usa – secondo l’indice dell’università di Yale – hanno registrato il più grande aumento annuo dell’ultimo secolo. Il prossimo presidente dovrà spiegare perché.