Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 05 Lunedì calendario

«IO IN POLITICA? MAI DIRE MAI. CANDIDARSI E’ UN DIRITTO DI TUTTI» —

Domani partirà per il viaggio più annunciato (e rinviato) degli ultimi anni. Antonio Ingroia prenderà un aereo per il Guatemala, dov’è stato chiamato a un incarico investigativo sotto l’egida delle Nazioni Unite, ma c’è chi è pronto a scommettere che tornerà molto prima del previsto, per partecipare alla prossima campagna elettorale. Magari come candidato premier di un’ipotetica quanto informe alleanza tra «partito dei sindaci», grillini e dipietristi.
«Io sto andando in Centro America, e l’ultimo dei miei pensieri è correre dietro a fantasie giornalistiche che al momento non hanno nulla di concreto», ribatte Ingroia, ancora nelle sue vesti di procuratore aggiunto di Palermo che oggi apporrà l’ultima firma sotto un atto giudiziario del procedimento sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia.
E se qualcuna di quelle fantasie dovesse diventare realtà? Il «mai dire mai» che ripete ogni volta che si parla del suo ingresso in politica vale sempre?
«Quello vale per tutti, compresi i magistrati in partenza per il Guatemala».
Ha letto gli ultimi commenti a un suo eventuale impegno politico o di governo?
«Ho letto e mi sono accorto di essere diventato, improvvisamente, un cattivo magistrato. Sinceramente penso che ciò derivi dal fatto che finché ci occupiamo di mafia militare, catturare latitanti o contrastare il racket va tutto bene; quando entriamo sul terreno delle collusioni con l’economia e la politica si fa di tutto per fermarci, accusandoci di aver sconfinato dai nostri doveri. È già capitato ai miei maestri Falcone e Borsellino e in seguito a Gian Carlo Caselli. Stamattina (ieri, ndr) ho letto che secondo Eugenio Scalfari ci sarebbe da rabbrividire e da espatriare se assumessi un incarico di governo, e mi sono tornati in mente i timori paventati da Lino Jannuzzi a proposito di Falcone procuratore nazionale antimafia e De Gennaro capo della Dia. Del resto, si sa, Scalfari e Jannuzzi hanno fatto un bel pezzo di strada insieme».
Più semplicemente, non potreste aver commesso errori? Per esempio con le intercettazioni tra Mancino e il presidente Napolitano. O con qualche sua esternazione dal sapore più politico che giudiziario.
«Io non credo che su quelle telefonate abbiamo sbagliato. Ma se pure fosse, questa vicenda ha messo in luce posizioni che denunciano una vera e propria insofferenza verso il nostro ruolo. Come quella di Luciano Violante che addirittura avrebbe preferito che non ci difendessimo davanti alla Consulta nel conflitto sollevato dal capo dello Stato. Mi sorprende che chi ci ha sostenuto quando ci occupavano di Dell’Utri e Berlusconi, o prendevamo posizioni pubbliche contro la politica della giustizia del centrodestra, abbia improvvistamente scoperto che uscivamo dal seminato quando con l’indagine sulla trattativa ci siamo imbattuti in altri nomi».
Ma lei ha proclamato pubblicamente che voi avete terminato il vostro lavoro e ora tocca ai cittadini scegliere una nuova classe dirigente. Non significa strumentalizzare politicamente il proprio ruolo?
«No, perché io ho fatto un altro discorso. Ho detto che la nostra indagine è arrivata fin dove poteva dimostrando, secondo noi, che al tempo delle stragi la politica ha optato per la convivenza anziché per l’intransigenza di fronte alla mafia. Poi ho aggiunto che se i cittadini vogliono cambiare classe dirigente spetta a loro scegliere gli intransigenti anziché gli altri, senza aspettare l’esito di un’inchiesta o di un processo. Non mi pare di aver confuso i due piani».
Perché pensa che l’indagine non poteva arrivare oltre?
«Perché per saperne di più bisognerebbe ottenere la collaborazione almeno di qualche uomo-cerniera tra la mafia e le istituzioni, e non mi pare ci sia aria. Dopo la fine del mito dell’impunità mafiosa, grazie al lavoro svolto da Falcone e Borsellino prima di essere neutralizzati dalle istituzioni e uccisi da Cosa nostra, e dopo la luce accesa sulla contiguità tra la mafia e pezzi di Stato con i processi ad Andreotti, Contrada e Dell’Utri, noi siamo saliti di un altro gradino. Pensiamo di essere arrivati al livello dei patti indicibili, stretti non da singoli politici o colletti bianchi ma da uno Stato che siglava accordi per una presunta ragion di Stato. Su questo gradino siamo ancora malfermi in attesa delle sentenze, ma evidentemente abbiamo già dato sufficiente fastidio».
E lei non si sente un po’ in colpa, almeno verso i colleghi che restano, a lasciare proprio ora? Qualcuno dice che sta scappando dalla probabile evaporazione delle accuse.
«Non c’è nessuna fuga, anche perché porterei comunque le responsabilità di un insuccesso giudiziario. E i colleghi che restano sono perfettamente in grado, ciascuno con la sua professionalità, di proseguire il lavoro svolto insieme fin qui. Dopo vent’anni di permanenza nello stesso ufficio, credo di aver esaurito un ciclo professionale e di aver colto l’occasione di un’altra esperienza, sempre nell’ambito del contrasto alla criminalità. Del resto se rimanessi, con il livello raggiunto di sovraesposizione e personalizzazione delle accuse, potevo essere più di ostacolo che di aiuto. Rispetto a certi veleni e contumelie è il momento di fare un passo laterale, anche per salvaguardare il lavoro dell’ufficio».
Ma la sovraesposizione, dottor Ingroia, l’ha scelta lei. Ora si lamenta perché sta troppo in tv o sui giornali?
«Niente affatto, anzi. Io rivendico la mia partecipazione al dibattito pubblico, e nel clima che si è creato continuerei a non tirarmi indietro. Sono convinto che il mio ruolo di pubblico ministero antimafia sarebbe monco ed effimero se si limitasse agli atti giudiziari. Di fronte a un fenomeno sistemico come la criminalità mafiosa che ha sempre contaminato la società e la politica, penso che sia giusto e persino necessario svolgere un ruolo di attore sociale e anche politico. Come lo fu, a modo suo e in un altro contesto, Borsellino quando in un convegno del Msi disse che non si poteva parlare di resa dello Stato di fronte alla mafia perché lo Stato non aveva mai cominciato a combattere seriamente la mafia. Oggi per una frase simile anche lui sarebbe accusato di collateralismo politico, vista l’intolleranza verso la libertà di pensiero dei magistrati, arrivata ai limiti della compressione dei diritti costituzionali».
E l’imparzialità del magistrato dove va a finire?
«Quella ci vuole sempre ma non significa neutralità, per esempio rispetto ai valori della Costituzione. In questo senso io mi sono dichiarato "partigiano della Costituzione" al congresso di un partito d’opposizione, proprio come aveva fatto Borsellino, seppure di opposta connotazione politica. Per quell’intervento c’è una pratica ancora aperta al Consiglio superiore della magistratura, stanno discutendo se la "bacchettata" che mi hanno dato debba essere inserita o meno nel mio fascicolo personale. E non dimentico che l’autore di quel documento di censura è il consigliere Calvi, uomo di sinistra, già parlamentare dei Ds».
Dopo Violante, Calvi. E poi c’è Magistratura democratica che ha stigmatizzato i suoi comportamenti pubblici. Perché ce l’ha tanto con le critiche che arrivano da sinistra?
«Perché io mi considero parte di quel mondo, dal quale mi sento un po’ tradito per la storia che la sinistra ha avuto, da Pio La Torre a Enrico Berlinguer. E perché mi viene un sospetto: che queste critiche, più che dai miei comportamenti o dai presunti errori derivino dal fatto che con l’inchiesta sulla trattativa siamo andati fuori linea. Se le indagini seguono una certa direzione e resti vicino ai desiderata di una certa parte politica allora è tutto a posto; se invece deragli dalla linea, pretesa o presunta che sia, allora vieni attaccato. Io però non ho da seguire linee, bensì cercare la verità. Nella mia scala di valori di magistrato c’è l’accertamento dei fatti, in qualunque direzione portino; non posso frenarmi per timore di scoprire qualcosa di politicamente scomodo, o di essere strumentalizzato da una o dall’altra parte politica. Paradossalmente io vengo accusato di interpretare politicamente il mio ruolo di pubblico ministero proprio da chi vorrebbe che tenessi conto delle conseguenze politiche della mia attività di magistrato: è chi mi critica che vorrebbe un pm politicizzato, non io».
Chi la critica avrà di che controbattere, ma lei se ne va perché pensa che non valga più la pena fare il magistrato in Italia?
«Non penso questo, ma credo che sia giunta l’ora di guardare in faccia anche le verità indicibili che s’intrecciano con le stragi e ci portiamo dietro da vent’anni, e non so se ci riusciremo. Io nel frattempo, di fronte a un’opportunità importante, ritengo che sia giunto il momento di allontanarmi. Ma dall’estero continuerò a partecipare al dibattito italiano, in modo più libero visto che finora mi dicevano che un pm non può parlare».
Attraverso un blog chiamato «Dall’esilio»: non le pare esagerato?
«Il nome del blog non sarà quello».
In una delle sue ultime «apparizioni» italiane, ha detto che la seconda Repubblica è stata peggio della prima. Perché?
«Perché nella prima la politica svolgeva un ruolo di mediazione, sebbene prevalessero gli interessi di partito, mentre nella seconda il bene pubblico è stato saccheggiato dagli interessi privati. Ai politici della terza toccherà il difficile compito di ribaltare questa situazione».
Con l’aiuto di Antonio Ingroia?
«Chi vivrà vedrà».
Giovanni Bianconi