Goffredo Buccini, Corriere della Sera 03/11/2012, 3 novembre 2012
DUCE, MSI E IL NO ALLA SVOLTA DI FIUGGI. RAUTI: L’IRRIDUCIBILE CHE DIVISE LA DESTRA - È
morto ieri a Roma all’età di 85 anni Pino Rauti. Tra i fondatori del Movimento sociale italiano, è considerato uno dei padri della destra italiana. «È stato uno dei bravi, dei grandi di questa destra», ha detto Assunta Almirante. Molte le reazioni del mondo politico, a cominciare dal presidente della Camera Gianfranco Fini, che di Rauti fu avversario: «Parlamentare rigoroso, intellettuale di profonda cultura, Rauti ha testimoniato con passione e dedizione gli ideali della nazione e della società che appartengono alla storia politica del nostro Paese».
Cordoglio anche dal presidente del Senato Renato Schifani e dall’ex premier Silvio Berlusconi: «Con Pino Rauti scompare uno dei personaggi più rappresentativi della storia politica della destra italiana». Nessuna dichiarazione dai partiti della sinistra. Mentre Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, ha ricordato l’«intellettuale di grande spessore, uomo tanto coraggioso quanto controverso e discusso, ha certo segnato un’epoca della storia italiana». Lunedì a Roma i funerali.
Con un saluto romano si congedò dalla destra di Fiuggi, ormai «liberal-capitalista». Lui, l’ultimo irriducibile, veniva da lontano: da un’Italia scura e fredda come può esserlo la parte sbagliata della storia, per giunta annichilita dai bombardamenti americani. Nel 1944, a diciott’anni, «col colpo in canna» aveva scortato Mussolini al Lirico di Milano per il suo ultimo tragico discorso, e di certo quel viaggio gli aveva segnato il resto dell’esistenza.«Ebbi questa fortuna», ricordò molto tempo dopo, con sobrietà, Pino Rauti, fascista mai pentito, papà del primo Ordine Nuovo, a lungo inseguito e infine assolto dalla terribile accusa di stragismo (una foto ritrae Almirante che va a prenderlo a San Vittore dov’era stato incarcerato per Piazza Fontana); autore di una monumentale (tremila pagine) biografia del duce; avversario irriducibile di Fini ? che lo definì «pericoloso incantatore d’anime», ricevendone in cambio vetriolo, «tu hai letto meno libri di quanti io ne abbia scritti» ?; suocero di Alemanno, che politicamente lo abbandonò proprio per andarsene con Gianfranco e la neonata An; osannato da almeno tre generazioni di giovani neofascisti e postfascisti, e ancora oggi detestato da molti dell’altra parte: tanto che nel giorno della sua morte basta scorrere le agenzie per scoprire l’assenza totale di messaggi di cordoglio o solo di riflessione, diciamo, alla sinistra di Casini, e basta aprire Twitter per cogliere, assieme agli improperi alla memoria, la raffigurazione plastica degli odi che ancora affliggono il Paese.Tra i ragazzi che quella sera di dicembre ’44 al Lirico cercavano la bella morte nel nome d’un dittatore ormai vecchio e allucinato, qualcuno la scampò, consegnandosi tuttavia a una brutta vita. Perché brutta e difficile fu la vita dei giovani fascisti nel dopoguerra. «Non c’era posto per noi repubblichini in quell’Italia», raccontò Rauti a Chiara Valentini: «Tutti avevamo un problema di sopravvivenza. Ci mettemmo assieme quasi per necessità, per aiutarci a vicenda». Molto più tardi, al tempo in cui Violante aprì uno spiraglio ai saloini, Luciano Lama sottolineò «l’errore drammatico di chi aveva vinto: confinare tanta parte di italiani così a lungo nella sconfitta». Forse bisogna partire da qui, da allora, dall’odore di sconfitta di certe vie buie d’una Roma affamata e devastata, dove spadroneggiava di notte la banda del Gobbo, per capire certe scelte marginali, certa endogamia forzata (le donne non ci vogliono più bene/ perché portiamo la camicia nera) e certi percorsi tortuosi che condussero Rauti e i ragazzi venuti da Salò ad aggrapparsi alla «Rivolta contro il mondo moderno» di Evola: erano convinti che il sulfureo filosofo fosse morto; quando lo trovarono acciaccato ma vivo in corso Vittorio Emanuele a Roma, ne fecero il loro maestro Jedi.Giovanissimo sottotenente della Rsi al comando di squadre di rastrellatori, due volte scampato al plotone d’esecuzione, Rauti porta dunque nell’Italia postbellica un duplice fardello di vittima e di carnefice del quale è difficile liberarsi. La fascinazione per Giorgio Almirante è quasi prima militare che politica, così come la passionaccia per tipi come Leon Degrelle, un nazista belga che aveva combattuto nelle Waffen-SS. La sovrastruttura culturale, che per molti detrattori servirà sempre e solo a coprire l’estremismo violento dei suoi seguaci, se la forma in galera con Pino Romualdi, la Primula Nera. Gli permetterà di rintuzzare quel senso di inferiorità intellettuale patito dalla destra nell’Italia repubblicana e, più pragmaticamente, di costituire prima la spina dorsale ideologica dei Far, i Fasci d’azione rivoluzionaria, e poi il Centro studi Ordine Nuovo. Più tardi, sotto la sigla Movimento politico Ordine Nuovo e sotto la direzione di Clemente Graziani e Pierluigi Concutelli, appariranno personaggi come Franco Freda e Giovanni Ventura. È dunque molte cose assieme Pino Rauti. «La mia generazione gli deve molto, ci ha fatto scoprire la tecnica gramsciana dell’approccio alla politica, il primato della cultura», sospira un ex missino moderato come Gennaro Malgieri: «Cattivo maestro? Mah, lei può leggere Edgar Allan Poe e trarne ispirazione per un omicidio: ma il problema non è Edgar Allan Poe, è lei». Flavia Perina, che fu giovane rautiana e amica di famiglia, sostiene che «in una comunità fisicamente assediata come quella della destra tra gli anni ’70 e ’80, Rauti ebbe il coraggio di parlare di disarmo degli opposti estremismi e di spingere migliaia di ventenni a discutere di ecologia, integrazione, femminismo, musica». Erano i tempi di «Linea», dei campi Hobbit, del mito dello «sfondamento a sinistra». «Ci davano dei castristi, perché parlavamo come i compagni».E quindi sembra questo un Rauti diverso dal leader nero affascinato dal paganesimo nazista, che rendeva visita alla fine degli anni Sessanta alla Grecia dei colonnelli («diedero la scossa a un Paese vecchio e corrotto»), dentro una destra intrugliata di miti golpisti e opachi rapporti coi servizi segreti.Lunga può essere la vita d’un militante politico, e non v’è dubbio che questo fu Rauti, anche nella battaglia con Fini per la segreteria del vecchio Msi, anche nell’addio di Fiuggi, anche nella lunga e penosa querelle legale per il possesso della fiamma tricolore, in una compagnia dove appaiono infine Tilgher e Romagnoli, perché alla fine quello che poteva essere per i suoi «l’Ingrao nero» diventa un anziano signore che s’aggrappa a chi può, persino a Berlusconi, nel 2006, trasformando così il voltafaccia del genero Alemanno in una felice intuizione politica.Tanta storia, tutte queste storie confluiscono alle sei della sera in via della Scrofa. Il sindaco di Roma arriva con la moglie Isabella, seconda figlia di Rauti, alla camera ardente, mentre s’iniziano a vedere parlamentari e militanti. «Sei stato una porta sul futuro. Continueremo a studiare, caro Pino, con il coraggio dall’analisi culturale che tu ci hai insegnato», scriverà nel suo blog. In un gigantesco come eravamo, ecco Storace e Gasparri, Buontempo e Augello, come se la morte del grande padre nero potesse unirli tutti, riportarli alla giovinezza perduta. La salma è lì, al secondo piano di via della Scrofa. E c’è chi nota che via della Scrofa è stata soprattutto la sede storica di Alleanza nazionale, l’odiatissima creatura nata dalla morte del Msi. E che la camera ardente è allestita nell’ufficio che fu di Fini. «Scelta incomprensibile», protesta Buontempo. «Appropriazione della memoria», mormora una militante di molte stagioni. Ma in questa stagione senza identità, nella diaspora senza fine d’un partito che Rauti contribuì a fondare sfuggendo al buio e al freddo del proprio passato, nessuno sa più dire chi possa appropriarsi della memoria di chi.
Goffredo Buccini