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 2012  novembre 05 Lunedì calendario

SALDO IN 30 GIORNI O INTERESSI TOP CAMBIANO LE REGOLE PER LA P.A.

Obbligo di saldare le fatture entro uno o al massimo due mesi e interessi di mora intorno al 10% per i ritardatari.
Basteranno queste misure per riportare a un livello fisiologico i tempi di pagamento della p.a.? Lo scorso 31 ottobre il governo ha licenziato uno schema di decreto legislativo che recepisce nel nostro ordinamento la direttiva n. 2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Come noto, il problema dei ritardi riguarda soprattutto le fatture emesse nei confronti di soggetti pubblici, che spesso costringono i creditori ad aspettare il saldo per mesi (e nei casi peggiori anni). Tale prassi è purtroppo molto diffusa nel nostro paese. Secondo le rilevazioni dell’Ance, la p.a. paga, in media, con un ritardo di 114 giorni, ma in alcuni casi si superano i due anni. Il dato più allarmante, però, è il continuo peggioramento della situazione. Complice la crisi economica, mentre nel 2010 circa la metà delle imprese segnalava aumenti nei ritardi, il dato per il 2011 è salito al 77%. Nella quasi totalità dei casi (97%), inoltre, gli ultimi 12 mesi non hanno portato alcun miglioramento.
Tale quadro è confermato da una recente indagine di Confapi, secondo cui sei pmi su dieci hanno riscontrato, negli ultimi quattro anni, un allungamento dei tempi medi per i pagamenti, mentre una su due denuncia ritardi superiori all’anno. In pratica, quando va bene i tempi di pagamento rimangono invariati, ma sempre più spesso continuano ad allungarsi.
Non sorprende, quindi, che negli anni passati si sia accumulato uno stock di crediti incagliati di proporzioni impressionanti. La cifra complessiva non è neppure facilmente verificabile, dato che le attuali regole della contabilità pubblica non consentono agevolmente di distinguere, nel coacervo dei «residui passivi» della p.a., i debiti veri e propri. In ogni caso, si tratta di un numero che oscilla fra i 70 e i 100 miliardi di euro. Le imprese interessate rischiano di cadere in un circolo vizioso da cui è difficile uscire: i ritardati pagamenti rischiano di generare irregolarità fiscali (con tutte le conseguenze del caso) e contributive (che, fotografate nei Durc, impediscono di accedere a nuove commesse).
Ecco perché sono sempre più diffusi i casi di fallimenti di imprese «in bonis».
In questo contesto si inserisce il provvedimento varato la scorsa settimana dal Governo. Come detto, esso è stato adottato per adeguare il diritto interno alle indicazioni sempre più stringenti provenienti da Bruxelles, che ha fatto della repressione dei pagamenti-lumaca un obiettivo strategico.
Il decreto del Governo corregge il precedente dlgs 231/2002 (anch’esso a suo tempo adottato per recepire una direttiva europea, la n. 2000/35/Ce) prevedendo due principali novità, che diventeranno operative per tutte le transazioni commerciali concluse dal 1° gennaio 2013.
In primo luogo, alle p.a. viene imposto di effettuare i pagamenti entro un termine molto breve: di norma non si potranno superare i 30 giorni e solo in casi eccezionali si potrà arrivare a 60.
In secondo luogo, chi non rispetterà questo timing dovrà corrispondere alla controparte un interesse molto elevato, pari al tasso fissato dalla Banca centrale europea maggiorato dell’8% (al momento, quindi, la soglia si aggira intorno al 10%). Tale sanzione scatterà in automatico (ovvero senza necessità di costituzione in mora) dal giorno successivo alla scadenza del termine.
Si tratta di una disciplina più restrittiva della precedente, che pure imponeva in via generale di pagare entro un mese e fissava uno spread elevato (+7%) rispetto al tasso Bce, ma che consentiva sia stabilire un termine superiore a quello legale, sia di fissare in diversa misura il tasso degli interessi dovuti nell’ipotesi di ritardato pagamento. Sebbene fosse previsto espressamente il divieto (sanzionato con la nullità parziale) di clausole gravemente inique per il creditore, spesso quest’ultimo ha stentato ad ottenere giustizia, perlopiù a causa della mancanza di forza contrattuale
D’ora in avanti, invece queste deroghe non saranno più consentite.
Ma sarà sufficiente a correggere una tendenza così radicata e che affonda le proprie radici nei mali atavici del sistema pubblico italiano?
Qualche dubbio, al riguardo, è legittimo.