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 2012  novembre 05 Lunedì calendario

MAZZOLA

[Una vita coi baffi] –
Arrivare ai 70 anni con la lucidità di Sandro Mazzola, firmo subito. Una memoria incredibile. Mai pensato che se oggi avesse vent’anni e pesasse come allora lo rovinerebbero in palestra? «Be’, il Mago ci ha provato. Pesavo 63 chili. Dopo tre mesi ero aumentato di tre etti. Fine dell’irrobustimento». E arruolamento, da parte di Brera, tra gli abatini. «Io, Rivera, Bulgarelli, De Sisti e non so chi altro. Ho saputo dopo, perché a quei tempi c’era un gran rispetto dei ruoli e non andavo certo a chiedere il perché a Brera, che c’era di mezzo mio padre. Secondo lui, il miglior centrocampista visto in azione. E ci credo, mio padre era uno che sapeva difendere, ma capace di vincere la classifica cannonieri. Ricordo la sua mano sulla testa, quando si entrava al Filadelfia e io ero la mascotte del Toro, mi sembrava che noi due insieme potessimo spaccare il mondo. Ero già convinto, con la presunzione dei bambini, di essere un buon calciatore perché segnavo su rigore a Bacigalupo, ma segnavo perché lui faceva passare apposta i miei tiri».
Quanto pesava chiamarsi Mazzola? «Per me era un infinito orgoglio, una favola che s’è interrotta troppo presto. Non avevo ancora realizzato che mio padre aveva lasciato mia madre, che abitava a Cassano d’Adda con mio fratello, e io stavo con lui e la nuova compagna a Torino». Né poteva realizzare il disagio di un viavai di carte bollate, avvocati, carabinieri, per stabilire con chi dovessero vivere i figli di Valentino e perfino il luogo dove seppellirlo. Il 20 aprile del ‘49, a pochi giorni dalla tragedia di Superga, Mazzola aveva sposato a Vienna la diciannovenne Giuseppina Cutrone. Non si poteva divorziare, allora, e come molti italiani Mazzola per l’annullamento del matrimonio precedente s’era rivolto al tribunale di Ilfov, in Romania.
«Per me era un orgoglio, un punto di riferimento. Nelle squadre giovanili giocavo col suo numero di maglia, l’8. E non mi sentivo una punta, è stato Herrera a inventarmi attaccante. Più o meno consciamente, cercavo di essere come mio padre. Una volta in prima squadra, il 10 toccava al regista ed era già sulla schiena di un grandissimo come Luisito Suarez. Avrei accettato qualunque maglia pur di giocare in prima squadra, dopo aver rischiato di andare al Como, perché all’inizio il Mago non mi vedeva granché bene. È stato Moratti padre a impormi, all’inizio seconda punta dietro a Hitchens, poi prima punta. Ma per anni, molti anni, ho sentito un sacco di gente mugugnare: quello lì, quel magrettino lì se si chiamasse Brambilla sarebbe ancora all’oratorio. Quello lì ha solo il nome, di suo padre, il resto è fuffa. Quel fil di ferro non è da Inter. È una musica che m’ha accompagnato da quando Lorenzi mi portò all’Inter, e fino alla certezza di essere titolare. Devo tutto ad Angelo Moratti in primis, e poi a Herrera».
Una pausa, un tiro dal sigaro toscano. «Lorenzi in campo meritava il soprannome di Veleno, ma fuori era una bravissima persona. Molto religioso. Era convinto che, prendendosi lui a cuore la sorte di due orfanelli, io e Ferruccio, Dio lo avrebbe ricompensato. Ma era anche grato a mio padre. Pozzo convocava Lorenzi ma non lo faceva mai giocare in Nazionale. Signor Pozzo, proviamolo almeno una volta, disse mio padre, e Lorenzi esordì. Anni bellissimi, sembra ieri. Due campioni del mondo per istruttori, prima Gioannin Ferrari e poi Meazza, il grande Pepp. Per noi ragazzini il bello era quando veniva la primavera e lui faceva le partitelle insieme a noi. Uno spettacolo. Fine psicologo, anche. La prima volta che tornai a Torino, da giocatore, c’era Meazza in panchina. Nessuno del Toro s’era mosso per me, neanche il presidente Novo, e sì che mio padre aveva chiamato mio fratello Ferruccio, il nome del presidente. C’era però Zoso, il magazziniere. Mi portò nel loro spogliatoio e mi mostrò il mio armadietto, ancora lì, conservato. Mi venne da piangere. Poi giocai la peggior partita della mia vita. Uscendo dal campo Meazza mi mise una mano sulla spalla: “Ho capì tütt, Sandrino, lassa stà”». Altra pausa, altro sbuffo di fumo. «Meazza sapeva esser duro, all’occorrenza. Ricordo una partita al campo Bramante, giocavo ala destra, piccolo e mingherlino com’ero a 15 anni. Un compagno, Galli, non mi chiudeva mai il triangolo. Gli ho gridato dietro qualcosa di poco carino. Ci sentiamo ancora, con Galli, fa il portantino in un ospedale della zona. A fine partita Meazza mi fa. “Ohei ti, Pastina, mi ho vinciü dü campionà del mond e ho mai vôsà adré a un mé compagn. Se te ciapi un’altra volta a criticà un compagn, ti te giughet pü al balùn”. Non era un modo di dire, allora c’era più rispetto, nemmeno a pensarci
di mandare a quel paese l’allenatore. Foni esigeva di essere chiamato dottore, non mister. Herrera dava del lei ai giocatori. La metà di quello che si insegna oggi a Coverciano è farina del Mago. Un po’ l’ho rivisto in Mourinho, ma intanto è cambiato tutto nel calcio. Anche gli arbitraggi: in un derby Zignoli mi fece 36 falli, nessuno cattivo, ma sempre 36. Nemmeno ammonito. Allora, la preparazione era fatta di giri di campo, corsette, salti alla corda. Herrera, subito il pallone. Anche con le mani, per migliorare i riflessi. Cosa mai vista prima. A me andava benone, a basket ero un discreto play, mi capitò di fare un provino per il Simmenthal di Rubini e Riminucci, ma la passione per il calcio, per quello che volevo dimostrare, era più forte. E comunque al Simmenthal presero Ongaro, mio compagno di banco».
Continua a considerare l’Inter la sua casa. «Ci sono entrato da piccolo, non ho mai avuto un’altra maglia. Ho detto di no due volte ad Agnelli e due a Boniperti, e so che Rocco mi avrebbe voluto al Milan. L’ho incontrato una volta vicino all’Assassino, il suo ristorante, m’ha detto che giravano voci su un cambio tra me e uno dei loro. “Con te e Gianni insieme, e uno che la butta dentro, facciamo cento gol”. Se son rose fioriranno, gli dissi, ma al Milan non sarei mai andato. E non perché c’era Rivera. Eravamo diversi, per questo potevamo giocare insieme e Rocco, che sapeva di calcio e passava per catenacciaro anche se giocava con tre punte, l’aveva capito. Con Rivera eravamo amici, c’era stima reciproca e c’è ancora. Insieme a Bulgarelli, De Sisti, Juliano, Castano nel ‘68 abbiamo fondato il sindacato calciatori, l’idea di Campana presidente fu di Bulgarelli, che ci aveva giocato insieme a Bologna. Fu etichettato subito come sindacato dei miliardari, ma noi, capitani delle grandi squadre, ci mettevamo la faccia per i colleghi più deboli. Allora, col vincolo, se un allenatore o un presidente dicevano che ti facevano smettere di giocare, smettevi davvero. Alle prime riunioni a Vicenza io e Gianni andavamo di nascosto, come carbonari, prendendo il treno».
Sulla rottura con l’Inter c’entra ancora il passato. «Mi aveva chiamato Tosatti alla Ds per parlare di mio padre. Invece l’argomento del giorno era Capello, che aveva raggiunto l’accordo con l’Inter ma poi Moratti ci aveva
ripensato. Filippica di Tosatti contro Moratti. A quel punto potevo fare due cose: o andarmene, come aveva fatto Bettega ai tempi di Brera, o far finta di nulla, non buttare altra legna sul fuoco. Il giorno dopo il presidente mi accusò di non averlo difeso e fu l’inizio della fine con l’Inter». Va e torna nel discorso, Valentino. Chi vuole saperne di più può leggere, ammesso che lo trovi, “La prima fetta di torta” (Rizzoli, 1977) scritto da Mazzola con
Luciano Falsiroli. Oppure, uscirà fra poco, “Volevo stare davanti alla porta” (ed. Limina) scritto con Marco Civoli. Mazzola ha 70 anni, una moglie, Graziella, sposata nel ‘64 (conquistata ballando “Il cielo in una stanza”), quattro figli e sette nipoti. Può essere eletto presidente della Figc lombarda. Idee ne ha. Ma non posso andar via senza parlare di staffetta.
«Una cosa così poteva succedere solo in Italia. Nel ‘70 il Brasile aveva quattro numeri 10, come la Francia di Hidalgo nell’82. La finale col Brasile, inizio alle 12 messicane, nacque male. Hai presente la foto del primo gol, Pelé di testa? Bene, avevi notato che Pelé salta dritto mentre Burgnich è sbilenco? Valcareggi già alla vigilia ci aveva dato le marcature. Bertini su Pelé, Burgnich su Rivelino. Mah. Discutemmo tra noi, era più logico il contrario. Io con Valcareggi non parlavo dal ‘68, ci mandammo De Sisti. Missione fallita. Il mister decise che saremmo partiti come diceva lui, semmai si sarebbe cambiato a gara in corso. E dopo pochi minuti già gli facevamo segno di cambiare, Pelé stava di punta e Rivelino più indietro. Decise il cambio nel momento sbagliato, su una rimessa laterale dei brasiliani in attacco.
Furbi, si accorsero del movimento in difesa, palla a Rivelino, cross a spiovere, nemmeno teso, e inzuccata di Pelé, Burgnich salta sbilenco perché non ha ancora recuperato la posizione.
Nell’intervallo mi tolgo le scarpe e le sbatto per terra, mentre Bearzot cerca di calmarmi. “Cosa fa lei? Decido io chi esce” dice Valcareggi. E arriviamo ai famosi sei minuti. Mi chiama fuori.
Non esco, sarebbe una vigliaccata. Così chiama fuori Boninsegna, che esce strizzandomi l’occhio. Fino al 2-1 di Gerson abbiamo retto, forse con qualche occasione in più. Poi ci è arrivata addosso la stanchezza della Germania. Dopo il 4-3, in albergo, qualcuno dei nostri ha pisciato sangue. La gente non immagina cosa significhi giocare in altura. In quattro anni eravamo usciti dall’inferno, avevamo vinto gli Europei, eravamo secondi nel mondo dietro a un grandissimo Brasile, sportivamente avevamo fatto qualcosa di importante e tutto in Italia veniva ridotto a quei sei minuti. Se i pomodori dopo la Corea li capivo, quelli del ‘70 non li ho mai accettati».