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 2012  novembre 05 Lunedì calendario

BATTISTA, L’ARTEFICE DI PRYSMIAN “COSÌ HO VINTO LA SFIDA DELLA PUBLIC COMPANY”

[Da dieci anni è numero uno della ex Pirelli Cavi, che lui ha risanato, ribattezzato dopo la vendita dal gruppo della bicocca alla Goldman Sachs e infine quotato in borsa. l’azienda è diventata uno dei primi player del settore] –
L’ Oscar per la regia della prima grande publiccompany tricolore è una questione di campanile. Un derby tutto toscano, anzi, tutto aretino, dove – come succede in tutte le stracittadine che si rispettino – il pronostico iniziale è stato ribaltato. Il favoritissimo Enrico Bondi, l’ex-numero uno della Parmalat (ora distaccato a sforbiciare i costi dello stato), puntava a fare di Collecchio la prima multinazionale tricolore senza padroni. Ma ha dovuto alzare bandiera bianca dopo l’Opa dei francesi di Lactalis. L’onore aretino è stato però riscattato, con gli interessi, da Valerio Battista. Schivo come Bondi, produttore d’olio – anche se in scala minore – come il suo conterraneo, velista di quelli veri, in mare a cazzar scotte in regata anche quando il termometro scivola sottozero e le dita diventano insensibili. Ma soprattutto da dieci anni tondi tondi numero uno degli ex-cavi della Pirelli. Che lui ha risanato, ribattezzato Prysmian dopo il trasloco dalla Bicocca a casa Goldman Sachs e quotato in Borsa. E che oggi è a pieno titolo l’unica azienda sul listino italiano diventata leader a livello mondiale nel suo mercato senza dover rendere conto a nessun socio di riferimento, patto di sindacato o nocciolino duro. Miracolo a Piazza Affari? No. Battista e la sua azienda sono l’esempio di come la programmazione e il lavoro metodico (lui, in fondo, è un ingegnere meccanico e pure un capricorno) paghino, anche se non si finisce ogni settimana in
copertina a un magazine e se nessuno ti ha mai visto («che vantaggi porterebbe alla mia azienda?») al Convegno Ambrosetti di Cernobbio. Il 55enne manager è nato e cresciuto dentro la Pirelli, un gradino alla volta. Ha iniziato a Sesto Fiorentino, ha fatto il pendolare tra Italia e Germania, è diventato direttore acquisti globale per i pneumatici a 44 anni. Fino a quando a inizio 2002 – l’inverno dopo la tragedia delle Torri gemelle – è squillato il cellulare e la sua vita è cambiata dalla sera alla mattina. Marco Tronchetti Provera, appena entrato nella stanza dei bottoni di Telecom Italia, gli ha proposto di prendere le redini della divisione cavi del gruppo. «Un mondo che non conoscevo per niente», ammette Battista oggi, ricordando la tensione di quei primi giorni passati fino a tarda sera in ufficio per studiare la sua nuova creatura. Quando ha capito cosa si era ritrovato tra le mani, gli sono tremati i polsi: la campagna acquisti del suo predecessore Giuseppe Morchio («senza la quale però non saremmo la realtà che siamo oggi») gli ha lasciato in eredità un’azienda con 40 milioni di ebitda e 600 milioni di debiti. «E nei primi due mesi del 2002 eravamo in rosso di 12 milioni, a fronte di un budget che ne prevedeva 120 di utile per fine anno ». Un’azienda cresciuta troppo velocemente, conti fuori controllo. In sintesi: pane per i denti della grande scuola dei risanatori aretini. «Quando ho focalizzato il quadro, sono andato da Tronchetti e gli ho detto solo una cosa: “Qui c’è troppo di tutto”. E lui mi ha dato carta bianca per fare quello che c’era da fare». L’ha fatto. E i risultati parlano per lui. I manager sono scesi da 240 a 122, gli impiegati da 4.050 a 2.800, gli operai da 10.500 a 6.500, gli stabilimenti da 68 a 53. E nel 2004 l’area cavi della Bicocca «erano già una realtà ripulita e rimessa in piedi», sintetizza Battista. Poi, visto che piove sempre sul bagnato, il vento ha girato a favore del mercato dei cavi grazie al boom del settore immobiliare e il “figlio minore” della grande Pirelli ha iniziato a correre. Era l’epoca in cui sul mercato tirava il mattone. E Tronchetti Provera, costretto a sacrificare qualche gioiello di famiglia per far quadrare i conti del gruppo dopo lo sboom di Telecom, ha fatto allora l’errore che forse non si è mai più perdonato. Ha acceso un faro sul perimetro del gruppo e ha deciso di tenersi stretti i mattoni della Prelios (a che prezzo si è capito dopo) e dare l’addio al business dei cavi. «Ci aveva promesso di non venderli a un concorrente ed è stato di parola », dice l’ingegnere aretino. Goldman Sachs ha messo sul piatto 265 milioni di dollari, ha costituito il veicolo Prysmian e ha chiesto a Battista di imbarcarsi nell’avventura. «E il 28 luglio del 2005, con una certa dose di incoscienza mi sono trovato davanti a tre tavoli a otto posti coperti di documenti da firmare per sbloccare il prestito da 1,056 miliardi necessario per far partire l’operazione». Il giorno dopo, ammette il supermanager, «mi sono svegliato con un po’ di mal di testa». Debito è una parola che non gli piace troppo. «Mi ricordavo dei guai che abbiamo dovuto passare a inizio millennio. Ho convinto la Goldman Sachs, che riteneva sostenibile per Prysmian un debito fino a 7 volte l’ebitda, ad accontentarsi di un multiplo di cinque ». E ha iniziato a lavorare per rimborsare prima possibile l’esposizione. Il suo stile, dice chi lavora con lui, è quello tipico degli ingegneri, con un pizzico di filosofia – sia detto con il massimo rispetto della nobile categoria – da “salumiere”. «Controlla ossessivamente processi e costi, mette sotto la lente le note spese, ricordandoci che l’azienda va gestita come un negozio e che alla sera bisogna aprire la cassa e trovarci dentro il guadagno della giornata ». In Prysmian si viaggia in economy, il venerdì, quando l’ad Battista ritorna per il fine settimana ad Arezzo, saluta tutti e si mette di persona al volante della sua macchina, senza autisti o simili. Il matrimonio tra la praticità dell’ingegnere e la sofisticazione della finanza di Goldman Sachs, dati alla mano, ha funzionato. La banca d’affari è rientrata del suo investimento iniziale con il dividendo del primo anno. E grazie alla quotazione e al graduale disimpegno ha guadagnato una valanga di denaro, moltiplicando per dieci il capitale iniziale. «Ci hanno lasciato lavorare e crescere insegnandoci a gestire tesoreria, cash pool e altre cose importantissime », ammette l’amministratore delegato. Lui, riuscendo a ritagliarsi il tempo per timonare in regata il suo Cronos 2 e per presenziare ogni anno alla macina in frantoio delle olive raccolte nei terreni attorno a casa («poca roba, cento litri d’olio per noi e per gli amici»), ha prima riportato a livelli fisiologici l’indebitamento a 1,24 sull’ebitda, poi ha comprato nel 2011 l’olandese Draka consolidando la leadership mondiale del gruppo con l’ok di un azionariato che oggi è frazionato tra i grandi investitori istituzionali mondiali. E ora? «Ora proseguiremo il consolidamento in un settore ancora molto frammentato e dove abbiamo già dimostrato di giocare un ruolo da consolidatore. Continueremo a crescere anche sfruttando le sinergie con Draka. Ok, siamo i numeri uno ma abbiamo solo l’8% del business globale». La public company? «Funziona e può esistere se gestisci bene le aziende. Noi dimostriamo che i grandi fondi accettano di diluirsi nel capitale se dai prospettive di sviluppo a lungo termine». La miglior difesa contro le scalate è tenere alto il valore del gruppo. Prysmian capitalizza oggi 3,3 miliardi (Tronchetti l’ha venduta a 1,3...). E quando i coreani di Tahian hanno cercato di portarsela via acquistando equity swap sul mercato, i capricci di Borsa (e l’intervento della Consob) hanno salvato l’azionariato diffuso della multinazionale tricolore. Magari, mai dire mai, arriverà un’offerta che non si può rifiutare, Battista avrebbe solo da guadagnarci. Lui ha sempre reinvestito i suoi guadagni in azienda. E oggi è socio di Prysmian all’1,4%.