Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 05 Lunedì calendario

FONDI SOVRANI, TERZA POTENZA GLOBALE IN ITALIA UNO SHOPPING DA DUE MILIARDI

Martedì 23 ottobre 2012 è stato un giorno di festa nella Striscia di Gaza. Guardia d’onore, addobbi nelle strade e un corteo di 50 macchinoni per la prima visita di un capo di Stato estero nei territori da quando i palestinesi vi si sono insediati nel 2007. A stringere la mano di Abu Abbas, il capo di Hamas, è stato Hamad bin Khalis al-Thani, sceicco del Qatar. L’occasione: l’investimento da 400 milioni di dollari per costruire case, scuole e infrastrutture nella Striscia intrapreso dal fondo sovrano Qatar Investment Authority. Non è un dono, ha tenuto a precisare lo sceicco, ma un’apertura di collaborazione futura fra i due Paesi nella speranza che la Palestina diventi al più presto uno Stato vero e proprio. E’ un salto di qualità per i fondi sovrani, i potenti salvadanai dei Paesi in surplus perché petroliferi o forti esportatori: non più solo investimenti finanziari a caccia di opportunità ma utilizzo a fini geopolitici della potenza economica. «E’ la logica politica per cui il Qatar ha appoggiato le forze inglesi e francesi nella guerra contro Gheddafi e ora investe non solo in Palestina ma in tutti i Paesi nordafricani post-primavera nonché nell’agricoltura del Sudan», spiega Alessandro Santoni, capo ufficio studi del Montepaschi che all’argomento ha appena dedicato un voluminoso report. «Si tratta di utilizzare questa straordinaria arma finanziaria per garantirsi la futura prosperità grazie ai verosimili introiti, ma per stringere solidi rapporti politici con questo o quel Paese che sul medio termine tornerà utile come alleato, accettando il rischio di trovarsi coinvolti in conflitti e tensioni più grandi di loro». Dal 2007 ad oggi il numero dei fondi è salito da 45 a 62 e il patrimonio gestito da 2000 a 5100 miliardi di dollari. La quota del Pil mondiale è salita dal 3 al 6%. Dalle poderose correnti di acquisto non è esente l’Italia, anzi il ritmo di ingresso sta accelerando. Nel 2011 gli investimenti dei fondi non avevano superato i 500 milioni ma nel 2012 si è già arrivati a quasi due miliardi. C’è stata l’operazione Unicredit a inizio anno con il potenziamento dal 4,99 al 6,50% della quota del fondo Aabar di Abu Dhabi, e poi l’acquisto dei cantieri navali Ferretti da parte dei cinesi per 374 milioni, di Valentino da parte del Qatar (che sarà finalizzato questa settimana per 735 milioni di euro), del 2% di Finmeccanica da parte del fondo libico (95 milioni), e molte operazioni minori. I fondi sovrani detengono nel nostro Paese partecipazioni azionarie nel 36% delle società di piazza Affari: è vero che il numero di imprese quotate è minore, ma è un fatto che in Gran Bretagna la quota sia del 25% delle aziende quotate, in Francia del 19 e in Germania del 17. Segno del valore di tanti nostri marchi su mercati lontani e forse di un minimo di affidabilità del nostro mercato finanziario: si pensi che il più presente in assoluto rimane ancora il Fondo norvegese che ha investimenti in azioni per 4,7 miliardi sparsi in un’infinità di aziende, ai quali si aggiungono 6,3 miliardi in obbligazioni e 4,2 in titoli di Stato. E il Fondo norvegese è il più attento di tutti a qualità e cristallinità nei suoi investimenti. La potenza dei fondi è emersa con la crisi finanziaria del 2007 e il parallelo aumento dei prezzi di petrolio e commodity che non si è ancora esaurito. Il più antico è il Kuwait Investment Authoritynato nel 1953 e dotato oggi di 296 miliardi di dollari, il più recente è il Fundo Soberano de Angola (5 miliardi di dotazione) tenuto a battesimo il 17 ottobre 2012 dal presidente Josè dos Santos con le parole: «Non vogliamo cadere vittime della volatilità dei prezzi petroliferi». Le stime più attendibili indicano che le somme gestite saliranno a 10 miliardi (e i fondi saranno 70) nel 2015: a quel punto i fondi saranno nel loro insieme la terza potenza mondiale dopo Usa e Cina. Insomma, guardati inizialmente con diffidenza, diventano sempre più protagonisti dello scacchiere globale. Nelle disastrate istituzioni finanziarie europee e americane il loro intervento è stato provvidenziale. Era l’ottobre 2007 quando il ministro del Tesoro americano Henry Paulson convocò i plenipotenziari dei principali fondi medio ed estremo orientali per lanciare un appello a intervenire, precisando esplicitamente che una volta passata l’emergenza il loro gesto sarebbe stato ricordato dall’America e dall’occidente tutto “per le generazioni a venire”, clausola confermata dalla successiva amministrazione Obama. Da allora ad oggi i fondi sono entrati in Citigroup (Abu Dhabi, Kuwait e Singapore hanno rilevato il 15%), in Merrill Lynch (a Corea e Singapore è andato il 20%), in Morgan Stanley (con il 9,9% della China Investment Corporation), in Bear Stearns (6% alla Citic). Fuori dagli Usa, i fondi di Hong Kong sono entrati in Canadian Imperial con il 6,1%, quelli di Cina e Singapore in Barclays rispettivamente con il 3,1 e il 2,1%, la Government of Singapore Investment Corporation ha rilevato il 10% di Ubs. Anche nelle banche italiane i fondi hanno fatto il loro ingresso con la Libyan Investment Authority (tuttora il 16° fondo mondiale) che rilevò il 4,9% di Unicredit, poi congelato al momento della rivoluzione e infine diluito a meno del 2% con l’aumento di capitale di gennaio 2012. È stato in quest’occasione che il fondo di Abu Dhabi è invece salito al 6,5% di piazza Cordusio. Tirando le somme, in molti casi è stato un affare: il Kuwait ha guadagnato 1,1 miliardi di dollari sui 3 investiti in Citigroup. Con la stessa banca ha guadagnato anche Singapore: aveva investito 6,9 miliardi di dollari nel 2009 per il 9%, quando ha ridotto la quota al 5% ha incassato 1,6 miliardi di utili, e oggi ne ha altrettanti sulla carta per le azioni residue. A volte però non è finita bene: quando nel 2010 l’Ubs effettuò una ristrutturazione finanziaria, il fondo di Singapore perse il 70% dell’investimento di 11 miliardi di franchi. E la China Investment Corporation è andata in rosso dopo aver comprato 3 miliardi in capitale di Blackstone alla vigilia di una quotazione andata malissimo. Ma nulla scalfisce questa superpotenza finanziaria. «Pur se vogliamo ammettere che i fondi hanno subito perdite anche rilevanti nella crisi, il decresciuto valore dei loro investimenti continua ad essere compensato da sempre nuovi afflussi di capitale», commenta Paolo Guerrieri, docente di economia internazionale alla Sapienza. «Ora però è cambiato tutto: i fondi hanno spostato le loro strategie di investimento dagli istituti finanziari dei Paesi avanzati verso i Paesi d’origine oppure altri Paesi appartenenti alla stessa area geografica. Inoltre stanno finalizzando più direttamente e precisamente gli impegni verso settori per loro cruciali». Ecco perché Singapore ha comprato in Canada un’azienda che estrae petrolio dalla sabbia e in Brasile piccole compagnie che producono idrocarburi off-shore: per garantirsi forniture energetiche al di fuori del mainstream mediorientale. La stessa città-Stato asiatica sta anche rilevando quote significative in tutti i 30 principali porti mondiali, e questo per difendere la sua economia basata su logistica e trasporti. Quanto agli investimenti interni, tipico il caso del Venezuela di Chavez, che non investe un centesimo dei suoi cospicui guadagni all’estero, o della Cina che ha creato il suo terzo fondo sovrano, il National council of social security fund, con 135 miliardi di dollari di capitalizzazione, per supportare lo sviluppo dell’economia interna e la stabilità sociale. A quest’ultimo fine investe in infrastrutture sul territorio comprese scuole e case per gli operai. Anche se «a gestire i fondi sono professionisti spesso formati nelle università americane, gente insomma che lavora con criteri assolutamente occidentali», come precisa Guido Rosa, presidente delle banche estere in Italia, un punto debole è l’incertezza sulla governance, il che rende complessi i rapporti d’affari. Nel 2009 il Fondo Monetario dettò le linee-guida per inserire la trasparenza fra i criteri di gestione ma non tutti si sono adeguati. Il Sovereign Wealth Fund Institute, attendibile centro studi che ha il solo torto di essere basato nella peggior città quando si pensa all’affidabilità, Las Vegas, ha creato l’indice Linaburg-Maduell (i due economisti che l’hanno elaborato) per attribuire un voto da 1 a 10 alla trasparenza dei fondi. Nell’edizione di ottobre 2012, se il fondo norvegese si è meritato un 10, le insufficienze sono ancora molte, dalla Cina ai Paesi arabi. Spiccano felici eccezioni come il Mubadala di Abu Dhabi che ostenta un bel 10 a fianco del Temasek di Singapore o dell’Australian Future Fund: ora l’impegno della comunità finanziaria internazionale è perché tutti i fondi diventino così virtuosi.