Fulvia Caprara, La Stampa 05/11/2012, 5 novembre 2012
“QUANDO ALLENDE VOLEVA CHE GIRASSI UN FILM SULLA SUA VITA”
[Il regista ricorda: il leader aveva visto “Sacco e Vanzetti” mi chiese se volessi raccontare l’“esperimento cileno”] –
Il cinema come avventura nel mondo. Senza steccati, barriere ideologiche, vezzi intellettuali. Il cinema a pranzo, a cena, e a colazione, la prima volta da attore, poi da regista, poi anche nel ruolo istituzionale di presidente della major Raicinema. Il cinema da lasciare e poi riprendere, come nelle grandi storie d’amore, per darsi all’opera oppure per raccontare in tv la storia di Marco Polo. Di Giuliano Montaldo, protagonista di Quattro volte vent’anni , il documentario di Marco Spagnoli (fuori concorso al prossimo Festival del Film di Roma) colpisce innanzitutto la magnifica leggerezza. Un’attitudine speciale a raccontarsi senza mai perdere il tocco ironico, come se tutti gli straordinari eventi che hanno punteggiato una carriera lunga 62 anni fossero cose che potevano accadere a chiunque. E invece no. Non succedeva spesso che un giovanissimo aspirante regista, appena sbarcato nella Roma della dolce vita, si prendesse il lusso, per due volte di seguito, di non presentarsi davanti al Maestro Fellini che selezionava collaboratori per i suoi film. E non succedeva mai, molti anni dopo, che una cantante all’apice del successo come Joan Baez decidesse di incidere una canzone per un film,
acco e Vanzetti , di un regista italiano che non aveva mai visto. Una vita di miracoli. Piccoli e grandi, seri e buffi, come quello della gatta Giulia che sembrava muta e invece salvò con un potente «miao» la vita di un neonato «molto inquieto. Ero scivolato finendo sotto le coperte, il miagolio servì ad avvertire mia madre».
Da allora fino ad oggi, Montaldo è andato avanti dicendo grazie agli amici, in testa Gillo Pontecorvo che lo promosse regista sul campo della Lunga strada azzurra e Carlo Lizzani che lo fece esordire come interprete di Achtung banditi! , confrontandosi con le nuove leve come Francesco Bruni che lo descrive insegnante (al Centro Sperimentale) «rispettato, temuto e benvoluto», dirigendo divi come John Cassavetes, Nicolas Cage, Klaus Kinski, Gena Rowlands, incontrando personaggi come il presidente cileno Salvador Allende che gli aveva scritto chiedendogli di fare un film su di lui, ma morì in circostanze drammatiche durante l’assalto dei golpisti alla Moneda prima che il regista potesse metter mano al progetto: «Aveva visto Sacco e Vanzetti , un suo emissario mi venne a chiedere se sarei stato interessato a dirigere una pellicola su quello che loro chiamavano “esperimento cileno”». Peccato, dice ancora oggi Montaldo, anche se «i film più belli sono quelli che non sei riuscito a girare davvero, però li hai immaginati proprio come li volevi tu, senza risparmi e senza restrizioni». Gli altri, quelli consegnati al piacere del pubblico, grondano memorie incancellabili. Sono il Giordano Bruno con Gian Maria Volontè che «mi ha insegnato l’importanza del silenzio», sono Gli intoccabili di cui Quentin Tarantino ha acquistato i diritti «perchè ci aveva visto per la prima volta il racconto di una mafia in smoking», sono L’Agnese va a morire con Ingrid Thulin trasformata in lavandaia partigiana delle valli di Comacchio: «Ero certo che non fosse adatta per il ruolo, bionda, nordica, elegante. La incontrai solo per gentilezza, me l’avevano indicata. Mi disse subito “guarda le mie mani, sono grandi, da ragazzina andavo con mio padre a pescare salmoni, li portavamo a casa sulle spalle...”. Il giorno dopo si fece trovare con addosso un camicione, struccata, voleva essere a tutti i costi l’Agnese, passò un mese con le ragazze che vivevano là e divenne una di loro». Un giorno, durante le riprese, la realtà irruppe nella finzione, e Montaldo ancora si commuove: «Ci serviva una bicicletta, ne scegliemmo una in pessimo stato, trovammo nel tubolare del sellino il messaggio di una staffetta partigiana che forse non era mai arrivato...».
Nella casa romana di Prati, dove i ricordi non seminano malinconia e i padroni di casa sono uniti come il primo giorno («Vera è una grande compagna di vita, una donna irrequieta, con cui bisogna fare i conti, però presente in tutti i momenti difficili. Ridiamo molto e litighiamo sempre»), pende la medaglia di cavaliere del pesto genovese perchè Montaldo è anche cuoco. Viaggiando da Genova a Roma dove arrivò con «35mila lire prestate da mio cognato e consumate in supplì», passando dall’epico Marco Polo girato nella Cina non ancora industrializzata di oggi alla Turandot «che mi ha aperto all’universo dell’opera, lasciandomi a bocca aperta», Montaldo ha trovato anche il tempo per coltivare una pianta rara come l’autocritica: «Se il mondo in cui viviamo è questo, abbiamo fallito. Sì, abbiamo creato un dibattito, però abbiamo perso». Anche solo per questo, Montaldo merita la stima, l’ammirazione affettuosa del pubblico e la passione attenta del regista di Quattro volte vent’anni.