Emiliano Guanella, La Stampa 03/11/2012, 3 novembre 2012
L’AGUZZINO CHE VIDE MORIRE I SUOI FIGLI DESAPARECIDOS
[Argentina: li salvò una volta, la seconda non intervenne] –
Una tragedia greca consumata negli anni della dittatura militare argentina, con un padre capitano della Marina che non fa nulla per salvare i suoi due figli desaparecidos. Il genitore è Oscar Alfredo Castro, oggi agli arresti domiciliari, accusato di essere stato uno dei capi degli squadroni della morte a Bahia Blanca. Un ufficiale dedito anima e corpo a quella che veniva venduta come la lotta anti-sovversiva, fatta di sequestri, torture, esecuzioni sommarie e voli della morte. I suoi figli sono Alfredo e Luis, spariti nel 1977 quando avevano rispettivamente 22 e 19 anni.
All’epoca dei fatti Castro - che a distanza di trent’anni è ora sotto processo a Bahia Blanca - era separato da tempo dalla sua prima moglie, che viveva a Buenos Aires con i quattro figli della coppia. A Bahia Blanca, città che ospita il quartiere generale della Marina per il Sud del Paese, aveva formato un’altra famiglia, moglie e due gemelli appena nati. Casa e lavoro, pochissimi contatti con l’ex consorte. Quando scoppia il golpe, i due ragazzi studiano e fanno politica tra le fila del movimento peronista. Alfredo va all’Università, Luis è all’ultimo anno delle scuole superiori. Frequentano il gruppo scout di Villa Bosch, nella periferia sud della capitale argentina, coordinato da don Mario Bertone.
n due anni furono diciotto in totale i desaparecidos del gruppo. Alfredo e Luis vengono sequestrati a casa, sotto gli occhi della madre, che il giorno dopo si presenta di corsa a casa del fratello, il colonnello dell’esercito in pensione Ezequiel Montero. Lo zio si limita ad accompagnare la sorella a presentare la denuncia, ma poi non fa più nulla. La donna chiama allora l’ex marito, che pochi giorni dopo organizza una spedizione intimidatoria a casa di don Mario, il «prete comunista» che considera l’autore del lavaggio del cervello sui giovani. Alfredo e Luis passano sei mesi reclusi a Campo de Mayo, quartier generale dell’esercito. Vengono torturati in ogni modo, costretti a dormire in celle dove possono stare solo seduti, mangiando pane e acqua.
Nel frattempo, il capitano Castro si divide fra la scuola dei sottufficiali della Marina e la coordinazione degli squadroni della morte. Alla cerimonia di chiusura dell’anno 1976 pronuncia un appassionato discorso a favore della lotta contro i sovversivi. «Dovete essere pronti a dare la vostra vita per affermare i sacri principi che reggono da sempre la nostra Repubblica: la profonda fede in Dio, il rispetto delle istituzioni civili e militari e la sacralità della famiglia».
Alla vigilia di Natale i due ragazzi vengono miracolosamente liberati. Tornano a casa, ma sono vigilati costantemente. Il padre va a trovarli a Buenos Aires e li invita, anzi gli ordina, di andarsene dal paese. «Ve lo dico una sola volta, non tornerò mai più a chiedervelo». I ragazzi non ne vogliono sapere, riprendono gli studi, il più grande pensa di sposarsi a breve con la fidanzata Maria. Il 30 giugno 1977 i militari sfondano di nuovo la porta di casa. Con una scusa qualsiasi se li portano via. La madre si precipita a Bahia Bianca. Il padre, questa volta, è inflessibile. «Algo habran hecho, se li hanno presi è perché stavano facendo qualcosa di sbagliato». Marita lo implora, sa che questa volta potrebbe andare peggio. «La Marina non c’entra niente - gli spiega l’ex marito -. Buenos Aires è sotto la giurisdizione dell’Esercito. Abbiamo fatto un patto d’onore, non si può chiedere un prigioniero che sia in mano ad un’altra Forza Armata. Preparati ad aspettarli per molti anni ancora». Marita entra a far parte delle Madri di Piazza di Maggio. Alfredo e Luis non sono mai più tornati.