Mattia Feltri, La Stampa 03/11/2012, 3 novembre 2012
PINO RAUTI, MORTO IERI, NEL SUO UFFICIO LA MORTE DI RAUTI L’UOMO GRIGIO DELL’ITALIA NERA
[Da Ordine Nuovo al Msi, una vita controversa] –
Più che l’uomo nero, Giuseppe “Pino” Umberto Rauti è stato l’uomo grigio, dell’ambiguità programmatica, dell’andirivieni imprevedibile fra le cose dette e le cose fatte. Fu così anzitutto per le bombe fasciste degli Anni Sessanta e Settanta. Rauti finì in carcere con l’accusa di aver partecipato agli attentati ai treni dell’8 e 9 agosto 1968 (dodici feriti), e poi fu incriminato per la strage di Piazza Fontana e per quella di Piazza della Loggia a Brescia. Sempre assolto, perché di ciccia nell’imputazione non ce n’era, non scampò al marchio non immeritato di cattivo maestro. Si fregiava infatti del titolo di rivoluzionario e organizzava convegni come quello sulla “Guerra rivoluzionaria” all’hotel Parco dei Principi di Roma; era il 1965 e fu uno dei tanti prologhi al delirio appena successivo. Che lui visse nel sogno dello sfondamento a sinistra, davvero una visione onirica, sfumata all’alba, di maritare gli elementi antisistemici fascisti e comunisti.
Questo era il rivoluzionario Rauti, classe 1926, uno che la Repubblica sociale la sfiorò appena, ma a vent’anni fu tra i fondatori del Msi insieme con Giorgio Almirante. È morto ieri e si porta via l’ultimo lembo novecentesco di quella destra affascinata dai miti esoterici con cui ha contagiato generazioni di giovani, compresa sua figlia Isabella e suo genero, Gianni Alemanno, sedotti da Federico II e dai misteri simbolici e architettonici di Castel del Monte. Rauti era stato amico, quasi discepolo di Julius Evola, il filosofo feticcio della destra più colta di cui lui fu vero capo. Divenne il megafono impeccabile dell’evolianesimo, inebriava i ragazzi col senso profondo delle cavallerie medievali, del martello di Thor, della mitologia germanica portata a noi dall’ Edda di Sturluson Snorri (lo si trova in edizioni Adelphi ), che racconta delle sale altissime del Walhalla, di Re Gylfi, del tempo remoto in un cui il mondo era una voragine immane. Niente più che la metafisica in cui si tuffarono i nazisti, quel mare plumbeo e sconfinato della morte di Odino, dell’oro del Reno, del crepuscolo degli dèi e che nella destra italiana della seconda metà del Novecento sfociò nei campi Hobbit, nella lettura obbligatoria di J.R.R. Tolkien, in quella dimensione volutamente allucinata, immaginaria, crepuscolare e consolante che era - anche questo fu il secolo scorso - l’unico possibile rimedio all’Età del Lupo, l’età della decadenza suprema.
Il problema è che poi Pino Rauti era grigio, era una sfumatura perenne, lanciava i suoi Marco Tarchi e i suoi Enzo Erra nei precipizi dalle cupe fantasie, e si spostava velocemente sui marciapiedi della trattativa, occupava lo spazio della nomenclatura, nei congressi contava i voti, si ritagliava lo spazio minoritario che gli permetteva di muoversi in un recinto amatissimo, entrava e usciva dal Movimento sociale trattandone ogni volta le condizioni. Come spesso succede ai rivoluzionari - specialmente a quelli italiani che non attraversarono mai il confine del crimine - Rauti aveva un orgoglioso animo piccolo borghese, andava in solluchero se veniva convocato al Quirinale da Francesco Cossiga, adorava prendere parte alle consultazioni, roba così, non di pura ispirazione wagneriana. C’era in lui un senso della frugalità, e andava impacciato con i camerati a prendere l’osso (un panino di vari salumi) da Volpetti (norcineria di pregio ed esosa vicino a via della Scrofa); una volta vide un vassoio colmo di salmone e quasi timoroso si chiese quanto sarebbe costato, e il deputato Ugo Martinat per sfregio si comprò l’intero cabaret. Però Ordine Nuovo - il centro studi che fondò nel 1954 con Clemente Graziani e Rutilio Sermonti, e che sarebbe diventato la fucina dei terroristi neri, da Franco Freda a Pierluigi Concutelli, da Stefano Delle Chiaie a Delfo Zorzi - arrivò ad avere diecimila iscritti, raccolti attorno ai motti delle SS, «il mio onore si chiama fedeltà».
Ordine nuovo finirà disciolto per ricostituzione del Partito fascista, provvedimento che era toccato anche ai Far (Fasci di azione rivoluzionaria) che un Rauti quasi imberbe contribuì a fondare nel 1946; gli costerà il primo arresto, nel 1951, insieme con Evola e i camerati Franco Petronio e Fausto Gianfranceschi, poi tutti assolti. Era questo, Pino Rauti. Un borderline istituzionale che coronò il sogno di conquistare la guida del Movimento sociale nel 1990, impresa che aveva fallito nel 1987 perché Almirante sosteneva un ragazzino di 35 anni e di nome Gianfranco Fini. Ho scritto più libri di quanti lui ne abbia letti, diceva Rauti e la battuta, per quanto facile, fotografava la questione. Però al tempo di Fiuggi si accordò proprio con Fini: lui si portava via tutti gli impresentabili, diciamo così, e Fini se ne andava a imberlusconirsi con Alleanza nazionale. Rauti fondò il Movimento sociale - Fiamma Tricolore con Giorgio Pisanò, epico combattente della Ridotta di Valtellina, e con Tomaso Staiti di Cuddia. Ma non era più aria. Il Novecento si era sbriciolato come i muri della Cortina di ferro, la marcia funebre di Sigfrido era ormai sovrastata dalla sigla del Drive-In. Tutto e stavolta per davvero si risolse in un irrimediabile crepuscolo, che la conquista di Roma da parte di Alemanno non avrà reso meno amaro.
"Scompare uno dei personaggi più rappresentativi della storia politica della destra italiana"