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 2012  novembre 03 Sabato calendario

LO SHOWMAN CHE VA SUL WEB COME NELLA VECCHIA TV

C’è, nell’aria, un «uso televisivo della Rete». Ovvero, monocratico, unidirezionale, dall’uno ai tanti: precisamente l’opposto delle sorti magnifiche e progressive (e soprattutto partecipative), che sarebbero connaturate, almeno potenzialmente, a Internet.
Un fenomeno davvero glocal, che possiamo osservare, su scala planetaria, nelle modalità con cui Obama e il suo vasto staff di comunicatori si avvalgono dell’arcipelago dei social network. Ma anche, venendo alle vicende di casa nostra, nella strategia di utilizzo del Web di Beppe Grillo e del suo «media guru» Gianroberto Casaleggio.
Pochi giorni fa Massimo Gramellini ha evidenziato il tramonto nella politica italiana – fino a capovolgersi addirittura nel suo opposto – dell’equivalenza tra share televisivo e consenso elettorale; da cui il veto posto dal leader del MoVimento 5 stelle alla partecipazione dei suoi ai talk show (da lui ricondotti, senza troppi complimenti, alla massima «stessa faccia, stessa razza»). Un fenomeno inedito ed estremamente significativo (se non epocale) per un Paese nel quale quella equazione vigeva indiscussa da tempo, e si era rivelata valida specialmente nel corso del ventennio berlusconiano.
Questo vero e proprio cambio di paradigma si consuma mentre crescono la centralità e la popolarità della Rete come canale di mobilitazione e comunicazione politica, innanzitutto per il boom elettorale della formazione politica a 5 Stelle. Ma, a ben guardare, non si tratta della (un po’ mitopoietica) democrazia elettronica diretta. Perché Grillo, invece, fa un uso del Web a senso unico e strettamente sorvegliato, in cui convivono «rumore di fondo» partecipativo e spirali del silenzio, tecnoentusiasmi di attivisti e simpatizzanti e dure reprimende ai dissenzienti (oltre a vari florilegi di dietrologie e complottismi, molto tipici del mare magnum della Rete), ma senza che i militanti influiscano nella maniera dichiarata (e invocata) sui processi di decision-making, decisamente più verticistici che deliberativi (quando non semplicemente piramidali). Anche in virtù della superiore conoscenza delle tecniche di manipolazione dei new media posseduta dallo staff che circonda il capo, come rilevava ieri su queste colonne Carlo Freccero. Ed è esattamente quanto accadeva con il «vecchio» tubo catodico generalista, dove la modalità d’interazione (per niente «interattiva») segue una sola direzione, e si basa sulle competenze specialistiche dei professionisti che ne padroneggiano i linguaggi e la media logic. Da questo punto di vista, dunque, il cesarismo carismatico-internettiano di Beppe Grillo (e il suo dark side di webpopulismo) possono venire considerati alla stregua di una nuova versione 2.0 della «democrazia del pubblico» che ha cominciato a celebrare i suoi fasti in epoca di neotelevisione.
Un paradosso, quindi, ma di paradossi (a partire da quello della sua natura organizzativa di «partito-non partito», o di partito personale che si vuole più democratico degli altri) si nutre, giustappunto, una formazione politica post-ideologica (e marcatamente postmoderna) quale è il MoVimento 5 Stelle.
Per spiegare la recente fobia verso il piccolo schermo del Grillo politico (che, come showman, proprio in quei lidi aveva incontrato la notorietà di massa) si può avanzare, infine, un’ulteriore spiegazione (oltre alla sua «messa al bando» del passato). In Italia la televisione (in primis quella del servizio pubblico) viene percepita, per una molteplicità di motivi, al pari di un’istituzione. E il MoVimento 5 stelle per «ragione sociale» e calcolo elettorale (che gli sta dando ragione) ha deciso proprio di puntare al monopolio dell’offerta politica di quell’indole anti-istituzionale in cui si deposita, ahinoi, una delle tare di lunga durata della storia italiana (e di cui sono lampante testimonianza gli scomposti e irresponsabili attacchi grillini al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano).