Siegmund Ginzberg, la Repubblica 04/11/2012, 4 novembre 2012
HUGO PRATT LEZIONI SUDAMERICANE
Quando Corto Maltese, partito da Venezia, sbarcò ventiduenne, nel 1949, in Argentina, non si chiamava Corto Maltese, anzi Corto Maltese non era ancora nato. Nacque molto più tardi, già quarantenne, in Italia. Ma c’è chi giura che fu concepito a Buenos Aires, in vista dei velieri che salpavano la Boca del Rio de la Plata. E quando Hugo Pratt, nato nel 1927 presso Rimini, arrivò a Buenos Aires, non si chiamava ancora Hugo, bensì Ugo. Si sarebbe trattenuto quasi vent’anni nella città di Jorge Luis Borges, del gran maestro della vita come racconto d’invenzione,
fiction, opera di pura fantasia talvolta spacciata per veritiera, talvolta più profonda del vero. A disegnare
per le leggendarie riviste di fumetti di Hector Oesterheld, a dipingere, a far l’attore di fotoromanzi, a cantare e suonare la chitarra sui treni e nei locali notturni, a far bisboccia e chiacchiere con gli amici, e a insegnare tecnica della «letteratura disegnata» alla Escuela Panamericana de Arte.
Le lezioni perdute si intitola il collage a cura di Laura Scarpa che unisce il materiale di quegli anni con una serie di testimonianze di amici, allievi, non allievi e Pratt stesso.
Si sarebbe dovuto intitolare semmai Le lezioni ritrovate.
L’occasione è infatti il ritrovamento delle centoventi dispense originali che la Escuela utilizzava per i corsi per corrispondenza, e di alcuni libri didattici che la scuola diretta da Enrique Lipszyc pubblicò nel corso degli anni per gli appassionati, tra cui la prima monografia al mondo dedicata a un autore di fumetti, un volume cartonato di 52 pagine proprio sull’allora giovanissimo Pratt, che tra i «dodici magnifici», los 12 famosos artistas vantati come docenti dalla scuola, era già il più eminente. C’è un po’ di tutto, dal materiale pubblicitario a estratti delle dispense, alcune bellissime fotografie, qualche fotocopia, le testimonianze, le didascalie. E il tutto forse buttato lì un po’ troppo alla rinfusa. Ma le tavole, comprese quelle “didattiche”, sono magnifiche.
Curioso: nei disegni di Pratt di questo periodo argentino non c’è nessun personaggio che abbia a che fare con l’Argentina. C’è il sergente Kirk, «eroe che pensa, non ricorre mai alla prepotenza, agli abusi o all’esibizionismo», che, sin dal primo episodio, difende gli indiani dalle prepotenze di un esercito occupante e per giunta ringiovanisce invece che invecchiare nel corso degli anni. Ci sono gli indiani e gli altri protagonisti del western o del noir poliziesco nordamericano. Ma niente folclore “locale”. Sì, certo, Corto Maltese naturalmente sarebbe poi passato per l’Argentina. Avrebbe intrecciato tanghi appassionati nei locali equivoci, con Esmeralda e Louise Brookszowyc. Che poi sarebbe Louise Brooks, il sex symbol del film muto degli anni Venti, di cui Pratt era follemente invaghito al punto da fargli attraversare l’America per andarla a trovare, lei ormai novantenne, nella sua casa a Rochester. Il che ci ricorda che fu anche disegnatore di raffinato erotismo, oltre che di avventure e d’azione. Ma tutto questo molto più tardi, quando Pratt era tornato da un bel pezzo a vivere e disegnare in Italia, perché qui c’era il miracolo economico e lì si andava alla bancarotta. È il ciclo, bellezza.
Lo stesso Pratt tiene a farci sapere che tutti i suoi personaggi, compresi quelli le cui avventure sono ambientate agli angoli opposti del pianeta, sono
in qualche modi passati da lì, dal cosmopolitismo della Buenos Aires di quegli anni. «Non ho mai trovato altrove una letteratura cittadina, urbana, come quella che è stata scritta qui a Buenos Aires. E tutto questo è nei miei fumetti, ci sono i personaggi, c’è tutto. È l’incontro con un mondo complesso e unico. Qualcosa che non si trova neanche oggi in Europa, sebbene la generazione attuale conviva tra italiani, inglesi, spagnoli. Perché qui (a Buenos Aires) ho incontrato il galiziano, l’andaluso, il
tano (come venivano chiamati gli italiani in Argentina), l’ebreo polacco, il tedesco, l’inglese, il russo, il patagonico, il gallese della Patagonia. Io ho trovato tutto qui. I militari baschi, i pastori baschi, nomi e soprannomi. È qui che ho succhiato tutto, come il latte», ebbe occasione a dire nella lunga intervista a Juan Sasturain, l’amico poeta dei desparecidos.
A Pratt, Borges — «letto tutto prima ancora che venisse proposto in Italia» — piaceva «perché riesce a raccontare cose vere facendole apparire come fantastiche ». Non credo l’abbia mai incontrato di persona. Ma capita spesso di conoscere meglio chi non si è mai incontrato, le città dove non si è mai vissuti, i luoghi dove non si è mai stati, le donne che non abbiamo mai abbracciato, gli anni in cui non eravamo nemmeno nati. Molte delle storie disegnate da Pratt sono ambientate in quella parte del Novecento che precede la sua nascita, grosso modo da inizio secolo agli anni Venti e Trenta. Per comodità potremmo sovrapporlo agli anni salienti del curriculum vitae di Corto Maltese: in Cina durante la rivolta dei Boxer (1900); in Manciuria con i russi, i giapponesi e Jack London (1904); subito dopo in Patagonia con Butch Cassidy e Sundance Kid; poi con Rasputin in Mongolia e poi sui treni blindati della guerra tra rossi e bianchi dopo la rivoluzione bolscevica (1918); poi in Africa, in Yemen, Somalia ed Etiopia; per finire la sua carriera nella Guerra civile spagnola, volontario nelle Brigate internazionali (1936), quasi a smentire una volta per tutte la leggenda secondo cui da giovane sarebbe stato fascista e si sarebbe arruolato nella X Mas. È frequente che i grandi maestri della fiction si trovino più a proprio agio a raccontare la propria epoca nelle vesti o in forma di nostalgia di un’altra epoca. Specie se il presente non è poi così avvincente, appare come un pessimo remake di un film già visto e sembra aver esaurito le cose che meritano di essere raccontate.
Aiuta certo l’atmosfera che si respira con la mente e con gli occhi: Baires, e poi Venezia. Aiuta probabilmente avere storie di famiglia complicate, in cui spesso quel che non sai e vorresti sapere supera quel che sai o sei propenso a raccontare: nel caso di Pratt il padre morto nell’Africa coloniale, la madre ebrea sefardita convertita, con la passione per la cabbalà (sarà poi così o è un provvidenziale tocco di fantasia?), il nonno fondatore dei fasci a Venezia e poi malato di Alzheimer, il quale, quando il nipotino gli mostrava i suoi primi disegni di cowboy e indiani, rispondeva con un entusiastico: «Belli! Belli questi bersaglieri!». Ma per trascinare davvero il tuo pubblico in un viaggio nel tempo ci vuole soprattutto tecnica e conoscenza. Ecco quindi il perché dell’estrema attenzione ai dettagli, del vero e proprio culto per l’accuratezza, ad esempio, delle più diverse uniformi militari, fino a quelle che poi avrebbe disegnato per il
Corriere dei piccoli.
Da piccolo li ritagliavo, incollavo sul cartone e ne facevo
interi eserciti. Mi davano un piacere pari solo a quello che avrei avuto dai fumetti e poi dai libri. Con in più la possibilità di gestirmi tutto da solo la vicenda.
Come si racconta conta quanto il cosa si racconta. Vale per un libro, come per un fumetto o un film.
C’è a proposito un ricordo d’infanzia di Pratt che la dice sulla magia del raccontare per immagini: «Avevo cinque o sei anni, andavo al cinema e cominciavo a vedere immagini dinamiche che si muovevano lì davanti. Questo ha influito moltissimo nella mia formazione ». Anch’io avevo chiesto una volta a mio figlio, quando aveva pochi anni, perché gli piacevano i fumetti. Mi aveva risposto: perché è come un film. Mi sa che aveva capito tutto.