VARIE 4/11/2012, 4 novembre 2012
APPUNTI PER GAZZETTA - LA SETTIMANA DELL’AMERICA E DELLA CINA
REPUBBLICA.IT
NEW YORK - Il presidente americano Barack Obama avanti di un punto sul candidato Mitt Romney. Secondo un sondaggio di Wall Street Journal/NBC Obama ha il 48% delle preferenze contro il 47% di Romney. Mentre secondo un sondaggio Rasmussen, i due candidati sono pari al 49%.
Lo speciale 2012 1
Superblog dei nostri invitati 2
2 NOVEMBRE
A poche ore dal voto del 6 novembre, in Pennsylvania Obama e Romney sono testa a testa. Secondo un sondaggio di Tribune-Review, i due candidati sono pari con il 47%. I due candidati sono pari anche in Michigan. Lo rivela un sondaggio di Foster McCollum White Baydoun che spiega che sono testa a testa con il 46%.
Paddy Power, uno dei più grandi allibratori del Regno Unito, ha cominciato a pagare, con due giorni di anticipo sul voto, gli scommettitori che hanno puntato su Obama. “Il 75 per cento delle scommesse sono state per Obama e il trend complessivo ci induce a credere che l’America lo riconfermerà presidente”, afferma un portavoce, sottolineando che raramente le previsioni politiche dei bookmaker britannici risultano errate.
Nel numero che esce oggi in tutto il mondo, con una copertina dedicata alle elezioni presidenziali americane, l’Economist pubblica il suo “endorsement”, cioè la sua dichiarazione di voto per l’uno o l’altro candidato, come usa nella stampa anglosassone, e sceglie Obama: perchè nonostante problemi ed errori, afferma un editoriale, ha salvato l’economia americana dal disastro e svolto una saggia politica estera. E inoltre perchè Romney non ha un piano economico che promette di funzionare meglio di quello di Obama. E’ un “voto” importante, perchè il settimanale britannico, pur avendo sede a Londra, non è più veramente britannico, vende nel Regno Unito solo il 20 per cento del suo milione e mezzo di copie di tiratura ed è molto letto dalla classe dirigente/intellettuale degli Stati uniti. Inoltre è una testata tradizionalmente più conservatrice che liberal, perlomeno in questioni economiche, dunque è come se Obama avesse ottenuto un sostegno in campo avverso. Sempre oggi, si schiera per Obama anche Philip Stephens, uno dei columnist più importanti del Financial Times (che invece deve ancora fare il proprio “endorsement” sulle presidenziali Usa), in un articolo intitolato senza mezzi termini: “Il presidente prudente merita un secondo mandato”. Stephens gli rinosce il merito di avere “navigato le acque della tempesta economica con cauta intelligenza”. Anche il Financial Times, come l’Economist, ha un’influenza che va al di là di Gran Bretagna ed Europa, arrivando fino all’America. E anche il Ft (sebbene a destra qualcuno lo chiami con disprezzo “il Guardian rosa”, alludendo sia al colore delle sue pagine sia a posizioni troppo spesso liberali) non è certo un giornale che appoggia istintivamente le forze e i candidati progressisti, dunque è significativo per Obama ottenere il suo “voto”.
GAGGI SUL CORRIERE
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
NEW YORK - «Vendetta? Che presidente è questo che invita a votare non per un programma serio, per risollevare questo Paese, ma per una vendetta contro di me»? «Revenge» è l’ultima parola alla quale, nei tre giorni finali della campagna, i due candidati alla Casa Bianca appendono uno scontro che si fa sempre più aspro. Barack Obama l’ha pronunciata venerdì sera davanti al pubblico di un comizio che lanciava muggiti di protesta ogni volta che pronunciava il nome del suo avversario: «Non fate "buuuu", vendicatevi col voto», ha tagliato corto il presidente. Ieri - in una giornata spesa in una galoppata elettorale attraverso New Hampshire, Iowa e Colorado - Mitt Romney ha fatto di quella battuta il suo cavallo di battaglia. La polemica sulla vendetta, dopo quella sul salvataggio dell’industria dell’auto, gli è servita anche ad attutire l’impatto mediatico di nuovi sondaggi che continuano a disegnare il profilo di una situazione incerta, ma confermano il recupero di Obama, soprattutto negli Stati chiave.
Un sondaggio nazionale, quello di Abc e Washington Post , continua a dare Romney in leggero vantaggio sul presidente (49 a 47), ma la partita vera - si sa - è quella degli Stati «in bilico». E qui due pedine fondamentali come Ohio e Florida (indispensabili ma non sufficienti per il candidato repubblicano) vengono assegnate a Obama dall’ultimo sondaggio, quello realizzato dopo l’uragano (mercoledì e giovedì) da Nbc , Wall Street Journal e dal Marist College. Questo consorzio di rilevazione, che il giorno prima aveva dato il presidente in testa anche in Wisconsin, Iowa e Nevada, attribuisce al leader democratico un vantaggio di ben 6 punti in Ohio, mentre in Florida il distacco in suo favore sarebbe solo di due punti. Tutto ancora incerto, insomma: oltretutto i sondaggi di due quotidiani dello Stato proteso verso i Caraibi, il Miami Herald e il Tampa Bay Times , danno, invece, Romney in leggero vantaggio. Ma, nel loro complesso, i numeri delle rilevazioni negli Stati chiave sono favorevoli al presidente, rafforzando l’ipotesi di un Romney che ottiene più voti di Obama a livello nazionale ma non riesce a diventare presidente perché perde negli Stati chiave e quindi non riesce a mettere insieme un numero sufficiente di «grandi elettori»: i delegati degli Stati che, poi, eleggeranno materialmente il presidente.
E, comunque, gli uomini della campagna del presidente devono avere altri dati che confermano il recupero di Obama anche negli «swing States» in cui appariva più debole, se hanno deciso all’improvviso di moltiplicare la spesa per spot televisivi da ieri fino al giorno del voto proprio in Florida e in Virginia. Pur nella consapevolezza che sarà un testa a testa fino in fondo, c’è, insomma, più fiducia nel team del presidente, che ieri ha fatto tappa in quattro Stati: Ohio, Wisconsin, Iowa e Virginia. Barack non ha lo smalto del 2008 e le piazze nelle quali si immerge non mostrano lo stesso entusiasmo. Ma la macchina elettorale è imponente e ben oliata e il fatto che la maggioranza degli elettori bianchi gli abbia voltato le spalle, che i maschi bianchi martedì voteranno in larga maggioranza per Romney, non viene visto come un ostacolo alla sua rielezione.
Certo, bisognerà vedere se la sua scommessa demografica - puntare su giovani, ispanici, neri e donne nubili - si rivelerà fondata. Che questi gruppi sociali siano la nuova maggioranza dell’America e che il trend vada sempre più in questa direzione è un fatto ammesso anche dai politologi repubblicani. E la piattaforma del presidente, dall’immigrazione alle unioni gay, all’aborto, tiene conto degli interessi di questi gruppi che, invece, Romney non ha di certo corteggiato. Il punto è che questi gruppi, per vari motivi, tendono a recarsi alle urne in misura molto minore rispetto alla borghesia bianca e agli anziani. Per questo l’esito della battaglia per la Casa Bianca verrà in gran parte deciso dalla capacità della macchina elettorale di Obama di persuadere incerti e «pigri» ad andare ai seggi. Tutte le proiezioni demografiche, comunque, indicano che in futuro il peso di queste minoranze sarà sempre più determinante, mentre quello del blocco bianco continuerà a calare. Ma già oggi la situazione è molto diversa da quella del 2000, il numero degli ispanici che andranno alle urne è enormemente superiore.
E se George Bush, col suo passato di governatore del Texas aperto ai «latinos» e di presidente che non aveva perseguitato i clandestini, nel 2004 riuscì a battere John Kerry anche conquistando il 44 per cento del voto ispanico, già nel 2008, con Obama, i democratici sono tornati a fare il pieno dei voti delle minoranze etniche. Romney, molto più duro di McCain sugli immigrati, non otterrà più di un voto ispanico su tre.
RODOTA
È un’elezione di bianchi (una maggioranza risicata, ma una maggioranza) contro neri (e latinos), e non lo si vorrebbe scrivere nel 2012. Di stati liberal delle due coste, tutti democratici, contro stati repubblicani nel mezzo dell’America. Ma è anche un’elezione di donne contro donne, una specie di versione politica gigantesca e seria di una partita scapole contro ammogliate. E le scapole, intese come donne singole, sono 55 milioni. Semplicemente andando o non andando a votare potrebbero decidere l’elezione. Tutti corteggiano il voto femminile, ovviamente, in modo aggressivo, originale, rozzamente subliminale.
Casalinghe ed embrioni. Guidando per le autostrade della FLOHVA -contrazione per Florida-Ohio-Virginia, i tre stati decisivi dove la campagna elettorale è furibonda- le indigene segnalano un aumento di cartelloni inquietanti. Finanziati e installati da gruppi della destra religiosa, sembrano voler convincere le automobiliste che gli antiabortisti estremisti hanno ragione; con l’aiuto di slogan come «a 18 giorni dal concepimento il suo cuore già batte», e foto di embrioni precocissimi, già biondi e con gli occhi azzurri. I cartelloni sono deliranti, ma le guidatrici si sentono in colpa. Le guidatrici con figli, con mariti, con autoradio e televisori spesso sintonizzati su Fox News quindi a dieta mediatica ultraconservatrice, spesso finiscono per approvare; se poi scanalano sulle infinite radio religiose e di Christian Rock, che in West Florida, sud Ohio e sud Virginia sono più moleste di Radio Maria, le loro convinzioni più pie vengono confermate. E insomma, dicono i sondaggisti e conclude chiunque giri per le cittadine e i centri commerciali dell’America meno battuta e più bianca, le donne sposate probabilmente voteranno più Romney che Obama, 51 per cento contro 41. Più per il «family man» che per il difensore dei diritti riproduttivi, più per il candidato che promette posti di lavoro che per quello che faceva sognare un’indistinta «speranza» con «cambiamento», su cui molte/i hanno proiettato le loro speranze personali, da cui molte/i sono delusi. E poi «l’altra volta l’ho votato, ma non mi è mai piaciuto», spiegava sabato sera una signora in un ristorante di Tampa, la città della Florida più incerta di tutte, ed esprimeva la perplessità di molte signore suburbane che stavolta sceglieranno lo stesso candidato del marito (cioè Romney). Le singole sono un’altra storia. Il voto è polarizzato a seconda dello stato civile, si diceva.
Sesso e voto. Perciò, sempre secondo i sondaggi, il 63 per cento delle donne non sposate è per Barack Obama; solo il 23 per cento preferisce il candidato repubblicano. Il quale candidato lo sa, e la sua campagna si è concentrata sul blocco sociale Casalinghe Disperate (magari non sono disperate, c’è chi le chiama così per via della serie tv; la latina Eva Longoria comunque fa campagna per Obama). Ann Romney, alla convention di Tampa, ha gridato entusiasta «donne, vi amo!», specificando poi che amava le mogli e mamme che si danno molto da fare. I democratici hanno fatto di tutto per portare ai seggi le ragazze; in stragrande maggioranza pro-Obama di default, quasi nessuna entusiasta come nel 2008. Per capire la curva del consenso obamiano, basta vedere le serie tv più ganze. Due anni fa, in New Girl con Zooey Deschanel, una ragazza pretendeva di fare sesso sotto un poster di Obama. In questi giorni, per Obama, ha girato uno spot Lena Dunham, creatrice e attrice della nuova serie ganzissima, Girls. Cerca disperatamente di convincere le diciottenni apatiche a muoversi e andare a votare. Paragonando il primo voto alla prima volta a letto. Che «non dovrebbe essere con chiunque», raccomanda Dunham. E non dovrebbe essere, ragionevolmente, senza contraccezione.
Misoginia e maggioranze. E proprio la questione contraccezione, ignorata per anni da tutti i candidati per non perdere il voto cristiano, è diventata una bandiera obamiana e un potenziale fattore decisivo. Non per merito dei democratici, per una serie di esternazioni repubblicane diciamo estreme. Il candidato al Senato nel Missouri Todd Akin secondo il quale se lo stupro è «legitimate», l’apparato riproduttivo femminile blocca il concepimento e quindi non esiste eccezione per l’aborto in caso di violenza. Il candidato nell’Indiana Richard Mourdock, meno ginecologicamente avventuroso ma più cupamente pio, convinto che, se dopo uno stupro la donna rimane incinta, c’è un evidente disegno divino. La scoperta che ben 12 candidati senatori repubblicani più il candidato vicepresidente di ultradestra economica e cattolica Paul Ryan sono contrari all’aborto anche in caso di violenza e incesto. «La misognia potrebbe costare la maggioranza al Senato», per i repubblicani, si dice ora; era una riconquista difficile, ora lo è di più. Restano le preoccupazioni di molte americane, scapole e ammogliate, del tipo più informato.
Mitt e la Corte. Quelle convinte che, se Romney vincerà, come tutti i presidenti repubblicani ricchi e liberisti dovrà pagare il suo obolo ai suoi elettori poveri e semipoveri devoti. L’obolo consiste, in genere, nella nomina di un giudice di destra e «pro-life» alla Corte Suprema. la nomina è a vita, ma uno dei giudici, Ruth Bader Ginsburg, ha i suoi anni e non si sente tanto bene. La sua sostituzione con un giurista antiaborto capovolgerebbe la maggioranza attuale di 5 a 4. In più, nel programma romneyano ci sono tagli ai fondi per la contraccezione (e a Planned Parenthood, organizzazione che offre mammografie e pap test, ma vabbe’). Comunque, la maggior parte delle donne non è dettagliatamente informata, è preoccupata per l’economia, voterà o non voterà con motivazioni culturali in senso lato. Poi ci sono le novità, anche culturali, in regioni inaspettate.
Il caso Tammy. Tammy Baldwin è una signora di mezza età molto midwestern e solida, deputato democratico da anni per un distretto del natìo Wisconsin, stato di Paul Ryan. Quest’anno è candidata al Senato contro un ex governatore popolarissimo, Tommy Thompson. Si pensava non avesse chances; l’ultimo sondaggio la da’ in lieve vantaggio. Tammy Baldwin è l’unica lesbica dichiarata del Congresso. Se vincesse, sarebbe il primo senatore apertamente gay. Essendo un tipo pragmatico desideroso di vincere, fa campagna parlando di economia, piccole imprese, assistenza sanitaria. Ma è seguita e finanziata da gruppi ed elettori gay da tutta l’America. Perchè, alla fine, l’America, donne incluse, è polarizzata ma è cambiata. «Le donazioni per Tammy non arrivano solo da San Francisco e New York, ma da tanti stati e piccole città», dicono al LPAC, il primo super PAC lesbico (niente battute, un PAC è un Political Action Committee che raccoglie soldi; e niente maschilismi, le donne americane votano in media il 7 per cento più degli uomini, che siano gay, etero, scapole o ammogliate; e su statistiche, sondaggi, modelli di previsione del voto delle femmine e esperti e tifosi stanno impazzendo, in questi giorni).
MANIFESTAZIONI IN CINA
Cinquantuno arresti e la sospensione dell’ampliamento di una fabbrica della Sinopec è il bilancio delle ultime manifestazioni ambientaliste in Cina. Questa volta le proteste popolari, aumentate di giorno in giorno, fino a provocare la chiusura della fabbrica oggetto delle contestazioni, hanno avuto come teatro la città di Ningbo. La fabbrica in questione era un impianto petrolchimico del colosso statale Sinopec. L’impianto è il più grande della Cina e doveva ricevere un ulteriore investimento, per il suo ampliamento, di 55,9 miliardi di yuan (circa 6 miliardi di euro).
All’inizio delle proteste in pochi avrebbero predetto il successo, almeno parziale. Ufficialmente infatti il progetto è bloccato, ma non cancellato del tutto. Il sindaco dell’area interessata, del resto, dopo i primi giorni di contestazione era stato chiaro: “Andremo avanti su tutta la linea per cancellare ogni ostacolo che si oppone all’inizio dei lavori di ampliamento dell’impianto di Zhenhai. Ningbo diventerà un polo petrolchimico di prima importanza a livello mondiale”. L’oggetto del contendere è nato dalla pericolosità attribuita alle emissioni di paraxilene (Px) dell’impianto. Il Px è una sostanza che viene ritenuta molto inquinante ed è utilizzata nella produzione di vernici e plastica. L’ inalazione di grandi quantità di Px pare possa provocare danni al sistema nervoso centrale, al fegato e ai reni, aumentando esponenzialmente il rischio di morte. L’impianto della Sinopec emetterebbe ogni anno, secondo quanto riportato dalla stampa locale, già 500 mila tonnellate di Px all’anno. Una cifra che andrebbe ad aumentare in caso di ampliamento dei volumi di lavoro della fabbrica. L’informazione ufficiale però smentirebbe la presunta pericolosità del Px, sostenendo la tesi che la sostanza sarebbe stata “demonizzata” da commenti apparsi on line.
All’annuncio dell’ampliamento dell’impianto, 200 cittadini di Zhenhai avevano inviato una petizione al governo distrettuale per chiedere lo spostamento dell’impianto petrolchimico. Da lì sarebbe partita la protesta. La tensione sarebbe salita dopo che circa 200 poliziotti, in tenuta antisommossa, sono usciti dal cancello dell’impianto, demolendo striscioni e fermando almeno tre manifestanti, portandoli dentro agli uffici, secondo quanto detto alla stampa locale da alcuni testimoni. Le proteste erano iniziate qualche giorno prima nel quartiere costiero di Zhenhai, dove si trova lo stabilimento petrolchimico e si erano infine allargate nel fine settimana anche a Ningbo. I residenti hanno riferito che le proteste di sabato hanno coinvolto migliaia di persone e che sono diventate violente dopo che le autorità hanno usato gas lacrimogeni e arrestato alcuni partecipanti. A quel punto forse è arrivato l’ordine da Pechino: fermi tutti, progetto momentaneamente bloccato. L’8 novembre c’è il Congresso, il diciottesimo, e il Partito sembra essere desideroso di calma assoluta, visti i preparativi condotti nella consueta paranoia securitaria. Inoltre anche l’evento di Ningbo testimonia un andazzo ormai frequente in Cina, visto l’impegno del paese per uno sviluppo “verde” come annunciato nel prossimo piano quinquennale: le recenti proteste contro fabbriche inquinanti sembrano avere successo, apparendo spesso come le uniche consentite e vincenti nella Cina attuale.
Lo scorso luglio era toccato agli abitanti di Shifeng – al centro della regione sudoccidentale del Sichuan tristemente nota per il terremoto che l’ha devastata nel 2008 – bloccare i lavori di una fabbrica di rame. Prima ancora era toccato a Dalian, nord est cinese, portare allo spostamento di un impianto petrolchimico. A giugno mille persone riuscirono a fermare un inceneritore a Songjiang, vicino Shanghai, mentre lo scorso anno era toccato a settembre ad un’azienda del ramo dell’energia solare, chiusa a Jiaxing – sempre vicino Shanghai- dopo che alcuni dimostranti avevano protestato contro alcuni elementi chimici utilizzati durante il processo manifatturiero. A dicembre 2011 invece, circa 30mila persone hanno marciato per bloccare la costruzione di una fabbrica a carbone a Haimen, vicino ad Hong Kong. Le proteste, infine, hanno visto nascere una nuova forza, quella dei “nati negli anni 90” supportata anche da intellettuali e dal web e capaci di caricarsi sulle spalle le battaglie ambientaliste del paese, che stando ai dati precedenti, rischiano di diventare un nuovo terreno di scontro tra potere politico e cittadinanza.
di Simone Pieranni
PECHINO - La scala che scende verso il nightclub dell’Hotel Chongqing ieri sera languiva in un buio senza speranza. Un foglio avverte che il locale è chiuso "in occasione del 18° Congresso" del Partito comunista che inizierà tra meno di una settimana, l’8 Novembre. Niente musica neppure le peccaminose, lusinghe della penombra né la presenze femminili che la popolano.
L’evento che consegnerà i nuovi destini della Cina a una nuova leadership innervosisce i vertici, riuniti nell’ultimo plenum del comitato centrale uscente, il 17o. Le voci danno ancora aperta la contesa per la scelta dei nomi che affiancheranno i capi già decisi. La capitale risente il clima , ritrovandosi in bilico tra misure di sicurezza e riflessi condizionati vecchio stile.
La capitale risente del clima. Vietata la vendita di coltelli. Ai tassisti è stato chiesto di vigilare su eventuali comportamenti sospetti e di tenersi alla larga dalla Tienanmen durante i giorni del Congresso, ma soprattutto di bloccare l’apertura dei finestrini posteriori nel timore, non esplicitato ma subito colto dall’opinione pubblica, che qualcuno possa lanciare volantini o altro.
Internet appare più lento e le televisioni piazzate in alcune palestre frequentate dalla classe media ora trasmettono solo programmi cinesi. Tutti ad aspettare l’8 Novembre.
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LETTERA 43 GIOVANNA FAGGIONATO
Le cifre non solo sono un segreto. Sono segreto di Stato.
Secondo il rapporto della commissione Onu per i diritti umani nel 2009 i prigionieri nei campi di lavoro cinesi erano 190 mila. Le stime più recenti apparse sulla stampa di Pechino oscillano tra i 60 mila e i 310 mila detenuti. Mentre l’organizzazione non governativa China Labour Bulletin, con base a Hong Kong, ne ha contati circa 400 mila.
Di certo a oggi nessuno sa dire con certezza quanti siano i cittadini rinchiusi nei Laogai, i campi di rieducazione ereditati dal sistema maoista degli Anni 50.
SUL TAVOLO DEL CONGRESSO. Qualcosa, però, nel ventre molle della sterminata Cina si sta muovendo. Le denunce si moltiplicano, le notizie circolano sui social network, i giuristi insorgono. E la politica sta prendendo seriamente in considerazione l’ipotesi di una riforma del sistema.
Il fascicolo potrebbe finire sul tavolo del 18° cogresso del Partito comunista cinese, destinato ad aprirsi l’8 novembre a Pechino. Se non altro perché il dossier potrebbe aiutare la conta all’interno della stanza dei bottoni, facendo emergere chi, ancora, sta con Mao Tze-tung.
Maoisti del Terzo millennio: la sovversione viaggia su twitter
La sorveglianza durante i turni di lavoro.
La sorveglianza durante i turni di lavoro.
L’ultimo (eclatante) caso è quello di Ren Jianyu. Blogger e funzionario comunale nel villaggio di Pengshui, finito a 25 anni in un incubo kafkiano. Il 18 agosto 2011, Ren è stato arrestato per aver riversato su Twitter il suo disincanto nei confronti del sistema: «In questa società, il male è divenuto la norma, la gente onesta non è mai ricompensata. La missione della nostra generazione è sradicare questo sistema vizioso e proteggere la bontà».
INCHIESTA FINITA NEL NULLA. Lo sfogo gli è costato un’incriminazione per «sovversione del potere dello Stato». L’inchiesta è finita ben presto nel nulla, la polizia non ha trovato alcuna prova del suo essere sovversivo e il procuratore generale della città di Chonqing, competente sul caso, ha ritirato ogni accusa.
Ma la macchina della repressione oramai si era messa in moto. Il comitato cittadino «per la rieducazione attraverso il lavoro» aveva già allungato le mani sulla pratica. E non l’ha mollata. Contro ogni evidenza giudiziaria, il 23 settembre Ren è stato condannato a due anni di lavori forzati in un campo di prigionia.
L’OMERTÀ SOTTO BO XILAI. Nella città di Bo Xilai, il leader maoista recentemente epurato dai maggiorenti del partito, le richieste di aiuto del giovane sono cadute nel vuoto. Fino a quando Bo era al potere, nessun avvocato ha avuto il coraggio di difendere il moderno Josef K. Solo nel giugno 2012, quando la purga imposta da Pechino era stata portata a termine, il telefono di Ren ha iniziato a squillare. Dall’altro capo del filo, Pu Zhiqiang, il legale del celebre artista Ai Weiwei, si offriva di difenderlo.
La condanna? Basta un contrasto con la burocrazia
Un’immagine di Mao Tze Tung.
Un’immagine di Mao Tze Tung.
Pu fa parte del gruppo di giuristi in lotta contro il sistema dei campi di lavoro.
A giugno 2012, Tang Hui, una madre di etnia Hunan - la maggiore etnia musulmana cinese - è stata condannata a un anno e mezzo di lavori forzati. Il motivo? Aveva presentato una petizione per chiedere una condanna più severa contro i sette uomini che avevano rapito, violentato e fatto prostituire la figlia di 11 anni. A quel punto fior di legali, mossi dall’indignazione hanno iniziato una campagna di sensibilizzazione sulla detenzione. Appelli per una riforma dell’impianto, sono stati pubblicati su alcuni dei principali quotidiani locali, invocando, più o meno strumentalmente, la fine della repressione perpetrata dai maoisti. E chiedendo un vero rinnovamento liberale.
SFRUTTAMENTO DELLA MANODOPERA. Il sistema del resto è criticabile da ogni punto di vista. È sfruttamento di manodopera gratuita e modello di produzione iper concorrenziale, fondamentalmente accettato anche delle istituzioni occidentali. La stessa Commissione europea, che dal settembre del 2010 aveva promesso misure per combattere il commercio dei prodotti realizzati nei campi, non ha fatto nulla di concreto.
I condannati sono privati dei diritti civili, e sottoposti a fatiche estenuanti. Ma il fulcro della sua ingiustizia sta nei criteri di selezione dei prigionieri: un esercizio di puro arbitrio da parte dei funzionari di partito.
DAI RECIDIVI AI NON COLPEVOLI. Nei campi di rieducazione finiscono i recidivi per crimini comuni, i colpevoli di sfruttamento della prostituzione e di gioco d’azzardo, ma pure chi si è macchiato di crimini che la giustizia penale non è riuscita a provare. Nell’insufficienza di prove, insomma, vale la presunzione di colpevolezza.
Di più, tra i candidati alla rieducazione, vi sono tutti coloro che presentano una cosidetta petizione, lo strumento con cui i comuni cittadini possono denunciare mancanze o colpe della pubblica amministrazione.
E anche chi ha dei contenziosi con lo Stato su terreni o beni da sfruttare o espropiare, sui documenti anagrafici e persino sulle licenze dei taxi. Insomma, il sistema si nutre di soprusi quotidiani e violazione di diritti civili basilari.
La classe media, però, non sembra più disposta a restare a guardare. E la politica se ne è accorta.
L’APERTURA DI JIANG WEI. Il 9 ottobre in una conferenza stampa ufficiale, il presidente della commissione per la riforma della giustizia Jiang Wei ha picconato per la prima volta lo strumento inventato dal Grande Timoniere.
«I Laogai hanno ancora un ruolo positivo nel mantenere l’ordine sociale», ha dichiarato Jiang, «E tuttavia nella società cinese è maturato il consenso sulla necessità di una revisione del modello».
Del resto, la riforma potrebbe far comodo ai nuovi leader, desiderosi di dimostrare che Mao è morto. Una volta per tutte.
Sabato, 03 Novembre 2012
VENTURINI SUL CDS DI STAMATTINA
Martedì in America gli elettori decideranno sul filo di lana chi sarà il loro presidente nei prossimi quattro anni, giovedì in Cina comincerà a porte chiuse un congresso del Partito comunista che deve scegliere timonieri e rotte per i prossimi dieci anni: se un regista occulto avesse voluto accostare i due eventi politici che più di tutti plasmeranno il mondo di domani e contemporaneamente esaltarne le differenze, non avrebbe potuto fare di meglio.
Dei due candidati alla Casa Bianca, Barack Obama e Mitt Romney, sappiamo tutto, ma non sappiamo ancora chi vincerà. Dei due nuovi dirigenti cinesi, Xi Jinping, segretario del Partito, e Li Keqiang, primo ministro, conosciamo invece l’identità e siamo ragionevolmente sicuri della loro nomina, ma poco o nulla sappiamo su di loro, sulle loro idee, sulle loro vite. In America le elezioni sono una maratona, si comincia con le primarie, poi le convention, poi la campagna in ogni Stato e i dibattiti televisivi. In Cina vige invece l’unità di facciata, che peraltro questa volta non ha retto: Bo Xilai è uscito di scena con il marchio del criminale, la lotta di potere tra correnti contrapposte è venuta ripetutamente alla luce, il New York Times, certo non da solo, ha svelato le enormi ricchezze accumulate dall’attuale premier Wen Jiabao e dalla sua famiglia. Eppure giovedì il Partito comunista tornerà ad affermare il dogma dell’unità come se nulla fosse accaduto. Curioso: in America il popolo decide, nella Repubblica Popolare il popolo comincia appena a farsi sentire.
Ma se tra martedì e giovedì Stati Uniti e Cina porteranno ai livelli più alti le loro diversità di cultura politica, esistono anche, tra Washington e Pechino, somiglianze e solidi legami. Come potrebbe essere diversamente, tra la prima e la seconda economia al mondo, oltretutto in attesa di scambiarsi le posizioni tra una quindicina d’anni o forse prima? Se non fosse per il paradosso europeo (oggi l’Europa conta ma in negativo, soltanto perché la crisi dell’euro fa paura e minaccia contagio) chi mai nel mondo multipolare che si va precisando potrebbe pretendere una importanza paragonabile a quella dell’America o a quella della Cina?
Profondamente diversi, i due protagonisti della scena mondiale sono dunque anche fratelli, e non soltanto perché uno (la Cina) ha in tasca una buona parte delle cambiali dell’altro (l’America). Si dice che Pechino preferisca una vittoria di Obama, il che risulterebbe coerente con il conservatorismo cinese. Ma sarebbe interessante, se vincesse Romney, vedere come le sue requisitorie anticinesi cadrebbero ben presto nel dimenticatoio. Usa e Cina sono condannate, nel reciproco interesse, a convivere limitando le conseguenze dei contrasti; e possono, quando se ne presenta l’occasione, indossare le divise del tanto vanamente discusso G2, che non sarà mai, appunto, più che occasionale e difensivo.
L’America cambierà comunque martedì, molto meno se vincerà Obama, molto di più se vincerà Romney. Ma — e qui è davvero difficile stabilire se si tratti di una somiglianza o di una diversità — da giovedì in avanti dovrà cambiare soprattutto la Cina. I nuovi dirigenti designati, Xi Jinping e Li Keqiang, dovranno trovare l’accordo con sette membri del Politburo e con i militari sul modo migliore di adeguare ai tempi nuovi l’economia e la sempre meno rassegnata società cinese.
I termini della sfida spiegano il terremoto politico che ha preceduto e che forse accompagnerà il Congresso. Per quasi vent’anni l’economia cinese ha beneficiato di una crescita a due cifre. Quest’anno la previsione è di un aumento del Pil del 7,5 per cento: un sogno per noi, una sirena d’allarme per i cinesi. Il modello basato quasi interamente sulle esportazioni, in un mondo che stenta a crescere quando non è in recessione, non funziona più. Bisogna pensarne un altro, bisogna controllare l’inflazione, prevenire la bolla immobiliare e verificare la solidità (dubbia) del sistema bancario. Bisogna, insomma, adeguare la Cina al pianeta che la circonda e in particolare alla strisciante crisi americana (eccola di nuovo, l’interdipendenza dei due giganti). Non basta. La società cinese è cambiata, è più istruita, utilizza Internet malgrado tutti gli ostacoli posti dalle autorità, è dunque informata e non tollera più la corruzione e i privilegi estremi di un esercito sempre più nutrito di nuovi miliardari capital-comunisti. Sono all’ordine del giorno proteste di varia natura, e nelle fabbriche emerge lentamente una sorta di sindacalismo spontaneo.
La risposta ai due versanti del problema, quello economico e quello sociale, risiede nel favorire i consumi interni. La Cina lo sta già facendo, ma dovrà farlo molto di più. E per questo serviranno riforme, e per le riforme servirà consenso nel vertice del potere. Il tutto senza aprire varchi al dissenso politico, che anzi viene colpito più di prima. Il tutto senza indebolire il controllo del Partito comunista sui forzieri capitalisti della costa meridionale.
In fondo la sfida è ancora tutta qui, ed è doppia. L’Occidente ha pensato a lungo che comunismo e capitalismo non potessero coesistere a lungo, e ha atteso l’esplosione di un sistema che considerava impossibile. Oggi l’Occidente riconosce che il modello cinese ha funzionato, e prega che non esploda anche se i contrasti tra comunismo e capitalismo sono cresciuti. Martedì e giovedì, America e Cina tanto lontane e tanto vicine.
fr.venturini@yahoo.com