Natalia Aspesi, la Repubblica 3/11/2012, 3 novembre 2012
Se non era in giro per il mondo, a Tokyo o a Palermo, a San Francisco o a Barcellona, a Parigi o a Roma, a costruire grandi nuovi musei, a riqualificare deteriorati spazi urbani, ad arredare le case dell’aristocrazia del capitalismo italiano, perlomeno di quella che amava la sua idea di modernità e rigore, oppure a ricevere premi prestigiosi, si rifugiava nella sua magnifica casa-studio milanese, arredata soprattutto da libri e divani, dove, lei amava dire «Verdi ha composto il suo Requiem»
Se non era in giro per il mondo, a Tokyo o a Palermo, a San Francisco o a Barcellona, a Parigi o a Roma, a costruire grandi nuovi musei, a riqualificare deteriorati spazi urbani, ad arredare le case dell’aristocrazia del capitalismo italiano, perlomeno di quella che amava la sua idea di modernità e rigore, oppure a ricevere premi prestigiosi, si rifugiava nella sua magnifica casa-studio milanese, arredata soprattutto da libri e divani, dove, lei amava dire «Verdi ha composto il suo Requiem». Poi alla sera sempre fuori, invitata nelle tante case di amici o nel vicino ristorante Timè, con quell’aspetto austero e l’ironico sorriso che illuminava la sua faccia diventata intensamente bella con gli anni, la piccola testa dai corti capelli bianchi, le rughe che erano come il luminoso racconto di una lunga vita di preziosa autonomia, libera da ogni inquietudine, o moda, o costrizione femminile. Di certe amiche affannate a difendersi dalla crudeltà degli anni diceva, affettuosamente, «l’ho riconosciuta dal cane». AULENTIAULENTI Era bella, come può essere bella una grande storia che il tempo ha perfezionato, anche nella sua ultima uscita pubblica: quando il 16 ottobre, due settimane prima di spegnersi, Gae Aulenti volle andare alla Triennale a ricevere con Vittorio Gregotti la medaglia d’oro alla loro carriera. Ormai molto fragile, sottile, con la voce affaticata e buffi grandi occhiali rotondi, era davvero felice, e riuscì a salire sulla pedana per ringraziare. In mezzo agli amici, anche quando ci furono i primi sintomi della malattia, lei rifiutava di essere al centro dell’attenzione, non parlava mai dei suoi successi professionali, si sedeva in disparte, con un bicchiere di whisky e l’eterna sigaretta, e ascoltava i discorsi degli altri, con qualche, intelligente, spiritoso intervento: ad accenderla era la politica, il suo essere da sempre di sinistra, la sua idea della Milano operaia che aveva amato e di quella che malgrado il suo declino anche architettonico, con tutti quei grattacieli storti, riteneva arricchita negli ultimi anni dalla presenza degli immigrati. INGE FELTRINELLIINGE FELTRINELLI Gregotti, suo coetaneo, ricorda la ragazza Gae che alla fine degli anni ’40 arrivava al Politecnico in lambretta, come le donne ancora non osavano, ricorda l’architetto Aulenti con cui per ragioni generazionali, condivideva il rifiuto del postmoderno. diavo29 carlo marina ripa meanadiavo29 carlo marina ripa meana Quando Inge Feltrinelli arrivò a Milano, Gae fu la prima donna professionista di grande successo che incontrò, diversa da tutte le altre eleganti signore milanesi, con la sua eterna uniforme di pantaloni e maglioni neri e tacchi bassi, un modo forse per imporsi nel lavoro; anche se poi, arrivando a Parigi dopo aver vinto il concorso per il museo della Gare d’Orsay, le chiesero dove fosse l’architetto, avendo pensato che lei fosse la moglie. Gae era madre, nonna e bisnonna molto amorevole, ed estremamente segreta sul suo privato. «Abbiamo vissuto insieme vent’anni», dice adesso Carlo Ripa di Meana, «poi lei se ne andò a Prato per lavorare con Luca Ronconi anche per allestire con lui quel famoso Viaggio a Reims dato al Rossini Opera Festival di Pesaro. Io mi spostai a Venezia, come presidente della Biennale e le strade si sono separate. Si è creato tra noi un terribile diaframma, lei per trent’anni mi ha negato ogni notizia». Lui è diventato il marito di Marina Lante della Rovere ma dice, non ha mai dimenticato quei meravigliosi anni milanesi accanto a una donna così speciale. Ma la vita sa essere gentile: sollecitato da Andrée Ruth Shammah che lo aveva invitato a parlare al teatro Parenti, dieci giorni fa lui ha avuto il coraggio di chiedere a Gae se poteva riceverlo. 5 luca ronconi5 luca ronconi «Non se ne andava più», ha detto la stanca ma forse pacificata signora alle amiche. Ricorda lui: «Aveva disegnato nel ’62 una sedia a dondolo e le aveva dato il nome con cui mi chiamava, "Sgarsul". In tutti questi anni quel silenzio mi è pesato moltissimo. Sono stato io a spronarla a lasciare la carriera accademica e a diventare quel grande architetto che è stata. Non avrei sopportato se fosse morta senza poterla rivedere, senza parlarle, senza accarezzarle la testa. Sono stato fortunato». GIULIA MARIA MOZZONI CRESPI - copyright PizziGIULIA MARIA MOZZONI CRESPI - copyright Pizzi Tra le tante amiche che la piangono, Giulia Maria Crespi ha tentato sino all’ultimo di convincerla a seguire una cura particolare mandandole una dottoressa di sua fiducia. Avrebbe voluto andarla a trovare, ma Gae l’ha pregata di aspettare qualche giorno. Voleva portarle una biografia di San Francesco perché le pareva necessario "darle una luce spirituale", in tanto dolore. Non ha fatto a tempo.