Paolo Conti, Corriere della Sera 3/11/2012, 3 novembre 2012
L e vere mostre, che non siano semplice routine, non spingono i curatori o gli eredi dell’artista semplicemente a scegliere e a collocare le opere, ma suggeriscono nuove indagini nei materiali
L e vere mostre, che non siano semplice routine, non spingono i curatori o gli eredi dell’artista semplicemente a scegliere e a collocare le opere, ma suggeriscono nuove indagini nei materiali. È quanto è successo a Fabio Carapezza Guttuso, figlio adottivo di Renato. Riguardando alcune carte del padre proprio in occasione della vasta mostra «Guttuso 1912-2012», che ha organizzato e curato in occasione del centenario della nascita del pittore, inaugurata il 12 ottobre al Complesso del Vittoriano a Roma (chiuderà il 10 febbraio 2013), si è imbattuto in una lettera inedita di Renato Guttuso indirizzata il 21 luglio 1957 a Stefano D’Arrigo, il futuro autore di Horcynus Orca, che proprio in quell’anno ne cominciò la stesura — conclusa solo nel 1975 per dare vita al famosissimo caso letterario. La lettera di Renato Guttuso offre uno straordinario spaccato della vita culturale nell’Italia del dopoguerra, indicando il forte legame che allora stringeva pittori, scrittori e poeti e di conseguenza gli organizzatori dei premi letterari. Ecco di che cosa si tratta. In quel 1957 Guttuso e D’Arrigo sono amici fraterni da anni. Si sono conosciuti nel 1949 a Scilla. Lo raccontava bene lunedì scorso Alberto Arbasino su «la Repubblica», parlando della mostra di Guttuso: «...e comunque, anche in assenza di tonnare, ogni pesca al pesce spada si rivolge direttamente a Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca». L’amicizia si cementa poi a Roma, nell’ambiente degli studi d’artista a Villa Massimo, sede appena sequestrata dell’accademia tedesca. Lì lavorano, con Guttuso, anche Emilio Greco, Marino Mazzacurati. E Guttuso avrà lì ospiti Pablo Neruda (di cui firmerà un famoso ritratto) e Pablo Picasso. In quel 1957 D’Arrigo ha appena pubblicato da Scheiwiller la sua raccolta di poesie Codice siciliano. Decide di concorrere al premio Viareggio. Ma il carattere riservato gli è oggettivamente d’ostacolo. E si affida al più combattivo amico Guttuso il quale, tenendo ben presente la composizione della giuria, gli scrive chiamandolo «caro Fortunato», l’autentico primo nome di D’Arrigo (fu Guttuso a suggerirgli, con Giacomo Debenedetti, di adottare il nome Stefano): «Io posso solo scrivere a Zavattini. Per il resto devi muoverti tu. Se davvero Bigiaretti ti appoggerà e Rèpaci non avrà altre raccomandazioni o interessi da proteggere, il premio dovresti averlo». Nulla accadeva senza il via libera del padre-padrone del premio, Leonida Rèpaci, che tenne saldamente il timone fino alla sua morte nel 1985. La «raccomandazione» è già in quel 1957 affare corrente nei premi letterari, infatti Guttuso aggiunge: «Però tu dovresti cercare Rèpaci e parlargli, dicendogli che sono stato io a spingerti. E così dovresti cercare tu stesso Giacomino». Ovviamente si tratta di Giacomo Debenedetti, il grande critico, autore de Il romanzo del Novecento. Renato Guttuso è tagliente e pratico, conosce le timidezze del suo caro amico D’Arrigo, siciliano quanto lui ma «diversamente» isolano, per via del temperamento umbratile che lo caratterizzava: «Non aspettare la pioggia in bocca. Il merito è solo una parte, per il resto bisogna almeno dire: "presente". Non fremere, s’intende, e figurati se sarò io a consigliartelo. Ma non aiutare la gente a dimenticare. Capisci?» Però Renato Guttuso crede sinceramente nel lavoro poetico di D’Arrigo e gli assicura altri appoggi attraverso amici intermediari per arrivare ai giurati: «Parlo dunque a Corrado (ovvero il pittore Cagli, ndr) per Bont. (cioè Massimo Bontempelli), a Tanino (Tanino Chiurazzi, titolare e animatore della galleria d’arte romana «La vetrina») per Ungaretti (ovvero Giuseppe Ungaretti), a Libero (il poeta e critico Libero de Libero, ex animatore della galleria «La cometa») per Bigiaretti (il poeta e scrittore Libero Bigiaretti) e tieni contatto con Rèpaci e con Giacomino». Guttuso sta scrivendo da Velate, il piccolo borgo medievale immerso nel verde della Brianza, dipinge nella proprietà di sua moglie Mimise Dotti. Nella conclusione c’è un altro avviso: «Ti abbraccio, dì a Nino che stia tranquillo, ho scritto ed entrerà alla Triennale». Si tratta del pittore Nino Franchina, caro amico di entrambi, sposato con la figlia di Gino Severini. Una rete vasta di amicizie, affetti e anche di ambizioni (i premi). Guttuso fu infatti amico di Moravia, Quasimodo, Ungaretti, Pasolini. Naturale che si interessasse ai riconoscimenti letterari, anche senza far parte di giurie. Alla fine, in quel 1957, il Viareggio di poesia andò invece a Pasolini per Le ceneri di Gramsci e per la narrativa a Italo Calvino per Il barone rampante. D’Arrigo ebbe però il premio Crotone nel 1958. In giuria c’erano Debenedetti (presidente), Ungaretti e Carlo Emilio Gadda. Stagione di giganti. Irripetibile, nemmeno a dirlo.