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 2012  novembre 03 Sabato calendario

«Poiché abbiamo trascorso gli anni in dolce armonia, vorremmo andarcene nello stesso istante. Che io mai non veda la tomba di mia moglie o lei debba seppellirmi»

«Poiché abbiamo trascorso gli anni in dolce armonia, vorremmo andarcene nello stesso istante. Che io mai non veda la tomba di mia moglie o lei debba seppellirmi». La preghiera di Filemone agli dei sarà esaudita. Racconta Ovidio nelle «Metamorfosi»: «Consunti dagli anni e dall’età Bauci vide Filemone coprirsi di fronde e lui vide la sua sposa fare lo stesso. «Addio amore mio», dissero insieme e insieme la corteccia come un velo coprì i loro volti facendoli scomparire». Storia d’amore tra le più tenere e struggenti quella di due vecchi innamorati decisi a stare fianco a fianco in vita come in morte. Zeus pietoso, commosso dal loro profondo affetto, li esaudisce trasformandoli in una quercia e in un tiglio uniti per sempre nel tronco e nelle radici. «Nel bene e nel male, in salute e in malattia, finché morte non vi separi». La promessa scambiata il giorno delle nozze a volte non basta. A volte non ci si vuole lasciare neanche oltre la soglia. Meglio andarsene insieme. Come fanno Georges e Anne (Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva) in «Amour», film di Michael Haneke, Palma d’oro a Cannes, magnifica meditazione sull’amore ai tempi della vecchiaia. Quando essere «coppia» assume significati e sfumature inediti, inattesi. Per Georges e Anna, ottantenni ancora in gamba, il loro «lago dorato» è tessuto di tenere complicità e passioni comuni, la musica, i quadri, i libri, consolidato da piccole abitudini, da quieti riti domestici. Il tempo e gli anni hanno lasciato i segni sui loro volti, hanno reso insicuro il loro passo, ma non hanno offuscato lo sguardo dell’uno verso l’altra. «Stasera eri molto bella ed elegante», le sussurra lui di ritorno da un concerto. Gli occhi si cercano sempre, le mani si accarezzano più di prima. Il desiderio assume nuove sembianze, la carne stanca, rugosa, diventa il soffice cuscino su cui adagiarsi. A scombussolare quel tenero tran tran arriva, inattesa ma prevedibile, la malattia. La mente di lei inizia a vacillare, a perdersi. Lentamente ma inesorabilmente Anne se ne va. Qualche sprazzo di vita ogni tanto riaffiora, brevi intervalli per scambiarsi ancora storie e ricordi. Ma il male non si arresta. Anne non può fare più nulla da sola e Georges, rifiutando l’aiuto di estranei, la accudisce in ogni modo. E il dolore, lo strazio, si fondono e confondono con la dolcezza di cantare con lei antiche canzoncine, di aggiustarle i capelli, di abbracciarla per sollevarla, lavarla, cambiarla. «E così quello che è stato il corpo del desiderio si trasforma nel corpo dell’accudimento — riflette la psicanalista Lella Ravasi Bellocchio —. Come se nell’ultima parte della vita andassero via i pudori, e finalmente puoi dirti le cose mai dette prima. Il corpo e i sentimenti si mostrano improvvisamente in una nudità indifesa, la passione si fa com-passione, il patire insieme diventa un nuovo, sconvolgente, modo di amarsi». L’amore terminale. La cognizione del dolore ne è la forma estrema, fatta di solidarietà, dedizione, ostinazione nel voler difendere fino all’ultimo respiro la dignità dell’altro. «Uno dei due ridiventa bambino, l’altro si fa padre o madre — commenta Ravasi Bellocchio —. Si ritrova la fusione originaria. E quando lei geme la sola parola che le è rimasta: male, male, male… lui la accarezza, le racconta una favola, la placa». Poi basta. Lo strazio deve finire. Con la forza che gli resta nelle mani deboli Georges preme il cuscino sul volto di Anne. «L’ultimo dono d’amore — sostiene la psicanalista —. Non resta che ricoprire quel corpo martoriato dalla sofferenza di fiori e andarsene con lei». Un gesto che ricorda il finale di un altro bel film, «Robin e Marian» di Richard Lester, dove un vecchio e bellissimo Sean Connery, un tempo eroe della foresta di Sherwood, ormai ferito senza rimedio, viene «curato» con un dolce veleno dalla donna del suo cuore, una stupenda Audrey Hebpurn costellata di rughe. Che, dopo avergli dichiarato ancora una volta il suo amore, beve dalla stessa tazza e gli si stende vicino in attesa di partire con lui. Eutanasia d’amore, una scelta estrema. Forse da non condividere ma anche da non giudicare. Il merito di film come questi è di farci riflettere su quello con cui prima o poi tutti noi dovremo fare i conti: il decadimento fisico, la malattia, la morte di chi ci è sempre stato accanto. «Se arrivi a una certa età — dice Haneke, 70 anni — è inevitabile confrontarsi con la sofferenza di chi ami». Possono essere i genitori, la moglie, il marito, persino i figli. «Ci siamo passati tutti. Di recente anch’io», conclude alludendo al suicidio di una zia ultranovantenne che lui aveva «salvato» da un primo tentativo. Invecchiare insieme amandosi è comunque e sempre un dono immenso. Un privilegio e un impegno. Invecchiare è una forma d’arte, sosteneva James Hillman, psicanalista americano, autore di un libro che di questo parla, «La forza del carattere» (Adelphi). Un’arte che, se si ha la fortuna di essere in coppia, bisogna coltivare insieme. «Perché il carattere si rivela solo alla fine della vita, come un albero diventa fascinoso solo quando è compiuto, con i suoi bozzi, i suoi rami fiaccati dalle tempeste». Crescere uno accanto all’altro come alberi, sostenersi, intrecciare tronchi e radici. Filemone e Bauci insegnano. «Nell’ultima sua fase l’amore richiede questo: il far resistenza della coppia contro le ingiurie del tempo, il saper guardarsi ancora con occhi amorosi, il diventare lo specchio buono dell’altro», conclude Ravasi Bellocchio. Per dirla con un poeta, Attilio Bertolucci, «Questo raggio che obliquo ti ferisce/ è ancora giovinezza, ancora, ancora». Per dirla con un altro, Jacques Prévert, citato proprio da Trintignant: «Bisognerebbe provare a essere felici, se non altro per dare il buon esempio». Vale per i giovani, e a maggior ragione per chi non lo è più.