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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

Perché sempre Mario? di Catherine Mayer e Stephan Faris / da Manchester e Roma Questa partita non finirà bene per Mario Balotelli, ma la stella dell’attacco del Manchester City merita sempre di essere guardata

Perché sempre Mario? di Catherine Mayer e Stephan Faris / da Manchester e Roma Questa partita non finirà bene per Mario Balotelli, ma la stella dell’attacco del Manchester City merita sempre di essere guardata. Un taglio da indiano Mohawk aggiunge un paio di ispidi centimetri al suo fisico robusto e anche per gli standard di eleganza e velocità del calcio di alto livello lui si muove con una grazia mesmerica, sgusciando tra i difensori senza perdere velocità. Qualche volta è al centro dell’attenzione anche per le ragioni sbagliate. Dopo 18 minuti e mezzo del match del 20 ottobre contro il West Bromwich Albion è entrato in scivolata su un difensore, facendosi ammonire. Un altro fallo può voler dire cartellino rosso per Balotelli e City con un uomo in meno. Lui sa benissimo che deve accettare la decisione dell’arbitro, chi lo guarda sa altrettanto bene la accetterà. E infatti poco dopo sta litigando con il direttore di gara, a fine tempo torna a lamentarsi finché un compagno non lo porta via con la forza. Che sia sul campo o nel suo privato, Balotelli sembra generare energia piuttosto che bruciarla. Attorno a lui le storie divampano, le passioni si accendono. Quando non gioca diventa irrequieto. Ma se deve tirare un rigore, nel momento di massima pressione diventa di ghiaccio. Da quando nel 2010 ha firmato con il club della Premier League “Super Mario” dal dischetto non ha mai sbagliato. (Lionel Messi, il più prolifico attaccante del Barcellona e vincitore della Scarpa D’Oro per avere fatto il maggior numero di marcature in una stagione, ha un tasso di successo dal dischetto dell’82%). “È solo un gioco mentale, io e il portiere” racconta Balotelli parlando della sua perfetta statistica dal dischetto. “Io so come controllare la mia mente”. Il segreto sta nella sua tipica rincorsa, così diversa dalla sua consueta scioltezza. Aspetta che il portiere cerchi di intuire la traiettoria del suo tiro e in quella frazione di secondo mira il lato opposto. “Quando il portiere si muove prima di me significa che in questo gioco mentale ha perso lui”. L’anno scorso Balotelli ha aiutato i Blues - chiamati così per i colori sociali, non per i tre sciagurati decenni di depressione - a vincere il campionato, il più importante trofeo del calcio inglese. Meglio ancora, il City ce l’ha fatta strappando la vittoria ai rivali dalla maglia rossa e dagli inesorabili successi, il Manchester United. Il City ha investito in una quadra di top player da quando 4 anni fa lo ha comprato lo sceicco Mansour bin Zated al-Nahyan, membro della famiglia reale di Abu Dhabi. Dall’inizio della stagione, nell’estate del 2011, fino al finale al cardiopalma di maggio, Balotelli ha ripagato i 38,5 milioni di dollari spesi per acquistarlo con 13 gol, due di questi contro lo United in una goleada da 6 gol a 1 che ha annunciato la rinascita di questo City ri-finanziato. Dopo il suo primo gol ai Reds, Balotelli si è sollevato la maglia per mostra la t-shirt che portava sotto. C’era scritto “Perché sempre io?”. I critici hanno interpretato lo slogan come una sbruffonata, un esempio di arroganza che, secondo loro, rovinava la sua prestazione. Lui ha risposto che, al contrario, il messaggio era una richieste per i critici e i paparazzi che lo perseguitano fuori dal campo: “Lasciatemi in pace”. È una vana speranza per questo 22enne investito da un’immediata fama in Europa e da una crescente celebrità anche fuori dal continente. Balotelli affascina perché, al di là dei rigori, è imprevedibile. Dovrebbe segnare di più (i suoi gol lo hanno collocato al decimo posto della classifica marcatori della Premier lo scorso anno, dietro ai compagni di squadra Sergio Aguero e Edin Dzeko). Dovrebbe anche creare più occasioni da gol per Aguero e Dzeko. Il suo modo di giocare può ispirare deliziosamente i compagni o semplicemente distrarli. L’allenatore del City, e suo vecchio mentore, Roberto Mancini lascia Balotelli in panchina sempre più frequentemente, preoccupato di come giocherà questo incostante ragazzo prodigio. Gli opinionisti riempiono l’etere e le colonne dei giornali per discutere se Balotelli dia più problemi che benefici. Cartellini rossi e gialli, il celeste del City, l’azzurro più profondo dell’Italia, per la quale ha iniziato giocare nel 2008: le storie di Super Mario e del Bad Mario, l’alter ego di Balotelli, sono sempre colorite. C’è il talento luminoso di un fenomeno che ha firmato con l’Inter, top club italiano, a 16 anni. Ci sono lampi di brillantezza e opache nebbie di rabbia auto-distruttiva, umori neri e un sorriso di straziante dolcezza, brutte storie di tabloid e strabilianti fotografie delle sue scelte modaiole fuori dal campo. E ogni immagine è filtrata con un altro colore che nel mondo dello sport, internazionale e variegato, ci si aspetterebbe che non contasse nulla: il colore della pelle di Balotelli. Primo giocatore nero a rappresentare l’Italia nei grandi tornei, le apparizioni di Balotelli nei primi tempi hanno provocato ululati scimmieschi e cori sulla sua terra natale: “Non esistono italiani neri!”. Balotelli, di discendenza ghanese, è nato in Italia e non è mai stato in Africa. Il razzismo va avanti, anche se la popolarità di Balotelli è cresciuta in tandem con i suoi gol per l’Italia. Quando l’Italia si preparava ad affrontare l’Inghilterra agli Europei del 2012, il quotidiano nazionale Gazzetta dello Sport ha pubblicato una vignetta che rappresentava Balotelli come King Kong; le gambe prensili della scimmia gigante stringevano la punta del Big Ben. In risposta alle proteste, la Gazzetta ha pubblicato un amareggiato comunicato: “Questo giornale ha combattuto ogni forma di razzismo in ogni stadio”. L’Italia forse non è daltonica, ma una larga vena della cultura italiana sembra insensibile alla questione del colore. Quando Balotelli ha fatto due gol contro la Germania in semifinale, un altro giornale sportivo, Tuttosport, ha celebrato la sua prestazione col titolo “Li abbiamo fatti neri”, un gioco di parole sui lividi - e sulla razza. Balotelli ha celebrato la vittoria contro la Germania, che ha portato l’Italia in finale, correndo verso gli spalti per abbracciare la mamma adottiva, Silvia, una donna minuta e bianca che aveva un viso pieno di orgoglio e di amore. È un’immagine che val al cuore della complessa e affascinante personalità di Balotelli e risponde anche alle domande che hanno a malapena iniziato a sollevarsi nel calcio italiano e che continuano a sporcare il calcio inglese. L’attaccante è un caso da studio interessante già da solo, con il suo talento e la sua turbolenza, ma Balotelli è anche una storia sull’Europa e, soprattutto, sull’identità. Parlando con il Time si fa gentile e imbarazzato, inaspettatamente pensieroso, ma gli capita di contraddirsi in un paio di frasi. Per Balotelli la vita è fatta tutta di apparenti contraddizioni: può essere una star e la parte di una squadra? testa matta e affidabile? cosa significa essere nero e italiano? Ed essere un eroe nazionale e la vittima di un nazionale pregiudizio? Dal successo di Balotelli nel riconciliare questi elementi deriverà il suo futuro: potrà concretizzare il suo potenziale per brillare come uno degli atleti più grandi della sua generazione o si spegnerà come una supernova. E nonostante dichiari che non gli interessa essere un modello di vita, che vuole solo giocare a calcio, i suoi successi o i suoi fallimenti risuoneranno attraverso quelle comunità che vedono riflesse in lui le loro lotte o vedono in lui la personificazione delle loro paure e speranze. L’Italian Job La celebrità calcistica è spesso conferita alle persone meno equipaggiate per avere a che fare con le sue tentazioni e i suoi stress: giovani uomini, ricchi di denaro e testosterone, poveri di giudizio. A Balotelli quest’immagine non si addice. Diversamente da molti calciatori, ha tanto cervello nella testa quando nei piedi. A scuola era bravo in matematica e sta pensando di studiare Scienze dello sport all’università. Sa con precisione quali dovrebbero essere le sue priorità. “Devo allenarmi bene a ogni allenamento e dare tutto sul campo” spiega. “Hai quattro o cinque cose che l’allenatore ti chiede di fare, poi devi giocare come riesci e dare tutto”. Non si può dubitare della sua sincerità. Ma non si può dubitare nemmeno della sua capacità di dire una cosa e farne un’altra, come quelli più vicini a lui ammettono mestamente. Internet è satura di liste sul “Crazy Mario”, elenchi di pagliacciate sul campo e fuori. Una ragionevole quantità delle ultime è stata infiorettata per bene dai tabloid (ad esempio non ha guidato per Manchester vestito da Babbo Natale distribuendo banconote, non ha pagato da bere a tutti in un pub né si è fatto carico del pieno di tutti i presenti a una stazione di benzina) ma il suo comportamento stravagante durante i match è stato documentato spietatamente in Tv e su Youtube. C’è un filmato divertente in cui fa fatica a indossare una pettorina (un momento inevitabilmente battezzato Bibotelli) e incidenti più seri che hanno compromesso le partite del suo club. Durante l’amichevole del City contro i Los Angeles Galaxy nel 2011, per esempio, ha dribblato l’ultimo difensore, poi ha fatto una piroetta prima di tentare e fallire l’appoggio del pallone in rete di tacco. Bambino iperattivo, che regolarmente dimostrava le sue straordinarie abilità calcistiche calciando la palla attraverso il vetro di una porta di casa, Balotelli è maturato in un adulto iperattivo. “È sempre occupato con un sacco di attività. Sta facendo qualcosa e poi ha un’idea, e quindi vuole fare qualcos’altro. Ha un pensiero, e poi altri 100 subito dopo - dice Cristina Balotelli, sua sorella adottiva -. Se gli dai un appuntamento, lui cambia orario almeno due volte”. Come i due fratelli e i genitori, Cristina è protettiva con quel bambino vulnerabile ancora facilmente visibile in quest’uomo fatto, che è entrato nella sua famiglia dopo un inizio di vita difficile. Lo loda per come ha imparato rapidamente l’inglese e per la sua capacità di evitare le lusinghe e i vizi che porta la celebrità. “È un po’ un misto - dice- è intelligente, maturo, ma nello stesso tempo non vuole crescere”. Il suo agente, Mino Raiola, lo descrive come uno “spirito libero, un Peter Pan nel senso positivo”. Una interpretazione della fatica che fa Balotelli a mettere da parte la sua indole bambina è facilmente individuabile in un’assenza di piaceri infantili nei primi anni di vita. Nato nel 1990 a Palermo, in Sicilia, dagli immigrati ghanesi Thomas e Ruth Barwuah, Balotelli ha passato gran parte del suo primo anno di vita in ospedale, con i chirurghi che tentavano di condurre una serie di operazione per aggiustare una malformazione intestinale che rischiava di ucciderlo. Simili separazioni mediche nella prima infanzia possono creare durevoli sensazioni di abbandono, e Balotelli ha indicato nelle interviste che prova proprio quelle sensazioni. Lui però non le collega al tempo passato in ospedale, ma alla decisione dei Barwhua - che allora vivevano con un’altra famiglia africana in un appartamentino affollato di Brescia, nel Nord Italia - di lasciarlo in cura dopo che era stato dimesso dall’ospedale. Non aveva ancora 3 anni quando è entrato in casa dei genitori che lo avrebbero adottato, i Balotelli. “Dicono che l’abbandono è una ferita che non guarisce mai” ha detto Balotelli a Sportweek, il supplemento settimanale della Gazzetta dello Sport, nel 2008. “Io dico solo che un bambino abbandonato non dimentica mai”. Oggi Balotelli non parla dei suoi genitori naturali; secondo il britannico Daily Mail la sua madre naturale si è trasferita a Manchester per essere vicina all’unico dei suoi 4 figli che non ha tirato su. Lo stesso giocatore presto potrebbe diventare papà. La sua ex fidanzata Raffaella Fico, una star di un reality italiano, è incinta di una bambina che sostiene essere sua. Se gli chiedi che tipo di genitore sarà, Balotelli fa una pausa come per dare la dovuta considerazione a questa domanda importante: “Penso che mio figlio avrà bisogno di una madre che sappia dire di no - dice -. Forse perché da piccolo ho sofferto molto. E allora lo amerò così tanto che forse non saprò dire di no”. In Silvia, Balotelli ha trovato la stabilità e una madre che dice di no. Balotelli dice che ascolta i suoi consigli e i suoi rimproveri. Quando si è ossigenato il Mohawk, la mamma gli ha inoltrato le lamentele dei parenti di Brescia che avevano bambini che volevano imitarlo. Lui ha mollato la tintura. Dice che la madre è “protettiva. Lei parla molto. Ha sempre ragione, o quasi. È paziente. Questo è il carattere di mia mamma. Per me mia mamma è tutto”. È il più italiano dei sentimenti, ma Balotelli è ufficialmente italiano solo dal 2008. Secondo Vittorio Rigo, l’avvocato di Balotelli, i Barwuah si sono opposti all’adozione di Mario, e lui ha dovuto aspettare di avere 18 anni per diventare un Balotelli, e un italiano. “Fino a quel momento ha mantenuto la cittadinanza ghanese e per pochi mesi ha perso l’opportunità di rappresentare l’Italia alle Olimpiadi di Pechino” spiega Rigo. I Balotelli hanno accettato Mario dal momento in cui l’hanno incontrato. L’Italia, la sua terra nativa, non lo ha ancora abbracciato. Nel 2009 la Juventus, squadra di Torino, è stata multata dopo che i suoi tifosi hanno passato il tempo a dedicargli ululati razzisti. Più tardi quell’anno, quando Baloteli era in centro a Roma, uno sconosciuto gli ha tirato davanti un casco di banane. “Quando non ero famoso, avevo un sacco di amici, quasi tutti italiani - dice lui -. Il razzismo è iniziato quando ho iniziato a giocare a calcio”. La casa dei Blues In parte potrebbe essere perché Balotelli ha iniziato a giocare a calcio in un momento in cui l’Italia, incoraggiata dal falso boom economico degli anni felici della zona euro e in cerca di giovani lavoratori che coprissero il deficit lasciato da una popolazione in rapido invecchiamento, era diventata un magnete per gli immigrati in cerca di fortuna. In una fotografia della squadra di calcio scolastica di Balotelli lui è l’unico nero. È stata un’esperienza che ha ripetuto quando è entrato nella nazionale under-21, nel 2008. La sua inclusione in quella squadra è stata il riflesso di un più largo cambiamento sociale. L’Italia è diventata più varia, e lo ha fatto più rapidamente di qualsiasi altra grande nazione europea. Nel 1990, l’anno di nascita di Balotelli, solo 1 abitante su 100 aveva passaporto straniero. Oggi ce l’ha 1 su 12. Molti di questi immigrati sono neri, molti fanno lavori umili. Ma sta emergendo anche una classe media nera ora che i figli di immigrati, nati e cresciuti in Italia e qualche volta definiti la “generazione Balotelli”, stanno entrando nella forza lavoro. Balotelli, il più famoso italiano nero, è diventato il simbolo della difficile transizione del suo paese. Gli stadi calcistici in giro per l’Europa offrono visioni sul campo dei cambiamenti demografici e dell’ostilità che questi cambiamenti a volte provocano. Il calcio inglese recentemente è stato macchiato da incidenti orribili. John Terry del Chelsea ha ricevuto solo una multa e una squalifica di quattro giornate per gli insulti razzisti a un altro giocatore, un episodio che ha provocato una pioggia di proteste e ha riaperto il dibattito sul come sradicare il razzismo dallo sport. Altri paesi devono ancora aprire seriamente questo dibattito. Il calcio italiano e quello spagnolo sono stati a lungo tormentati da piccoli gruppi di tifosi che insultavano i giocatori neri. La partita dell’Inghilterra under-21 contro la Serbia del 16 ottobre è andata avanti mentre i tifosi serbi facevano versi da scimmia ai giocatori inglesi neri, ed è finita in una rissa in campo. Agli occhi di Balotelli, la multietnica vitalità di Manchester non è niente male. “In Inghilterra - spiega lui - tutti sono uguali”. Questa percezione non è sostenuta dall’evidenza. Se Balotelli vuole vedere le prove di divisioni sociali deve solo fare un giretto in macchina. Un libricino consegnato ai nuovi acquisti del Manchester City suggerisce loro di prendere casa nel triangolo più ricco e lussuoso del Cheshire, la florida contea che ricade sulla parte Ovest di Manchester. Il villaggio di Alderley Edge “ha eleganza e uno stile che trascende l’effimera natura della celebrità” spiega il libretto. Si dimentica di ricordare lo status del villaggio del Cheshire, che è il secondo più ricco della Gran Bretagna in una classifica elaborata da una compagnia di beneficienza, la Church Urban Fund. Lo stadio del City invece è nella zona ovest di Manchester, vicino a Collyhurst, la quarta zona più povera del Paese. Una fetta della nuova ricchezza mediorientale del City è stata canalizzata verso un miglioramento del quartiere. Questa generosità non dispiace ai tifosi del City, che sono sempre stati orgogliosi dell’integrità casereccia del loro club. Loro liquidano i supporter dello United, soprattutto quelli nati fuori dai confini di Manchester,come “cacciatori di glorie”, sedotti dalle bacheche della squadra, piene di coppe d’argento. La fedeltà dei Blues, al contrario, li ha legati alla squadra attraverso i tempi più cupi. Ed Owen, capo della Fondazione contro la fibrosi cistica e devoto del City fin da bambino, ricorda di avere visto la squadra vincere il terzo titolo più importante del calcio inglese. “Quella volta ho pensato che quella sarebbe stato il massimo della vita da tifoso del City. Non ho provato niente del genere fino all’anno scorso” racconta. “Il momento peggiore è stato un freddo martedì sera del 1998, quando sono andato a vedere il City affrontare i Wycombee Wanderers nella vecchia Terza Divisione e l’ho visto perdere 1 a 0, una sconfitta che ci ha relegati al decimo posto”. In un piovoso giorno d’autunno, tra nuvole così grige che l’alba si confonde col pomeriggio, il campo di allenamento del City è abbastanza desolante. Ma la Bentley Continental Gt bianca di Balotelli illumina la scena mentre supera gli zuppi cacciatori di autografi armati di penna e fa pensare all’impatto trasformativo dei soldi dello sceicco Mansour. Balotelli parcheggia tra le supercar dei suoi dorati colleghi e punta verso gli spogliatoi per prepararsi alla sessione di allenamento del mattino. Arriva al lavoro in scarpe da ginnastica con luccichii dorati e un orecchino di diamante, ma non con il cardigan bianco decorato di pelliccia e con un teschio in strass che indossa in molte delle sue foto sui tabloid. Va a grandi passi alla reception passando sotto il tabellone con la scritta “Abu Dhabi Travellers Welcome”, che ha tutta l’aria di confondere chiunque arrivi qui per la prima volta. Un accordo di sponsorizzazione decennale da 643 milioni di dollari firmato com Eithad Airways, la compagnia di bandiera di Abu Dhabi, ha piazzato il logo del vettore sulle maglie dei giocatori e sul loro stadio, mentre le performance migliorate del City nel 2011 hanno piazzato il nome della squadra sulla FA Cup, la più importante coppa inglese, e l’anno dopo sul trofeo della Premier. Dopo tre mesi dall’inizio della nuova stagione, il City è terzo in campionato, dopo il Chelsea e lo United. Nessuno escluderebbe le sue chance di superare i rivali entro la primavera per andare a vincere la Premiership per il secondo anno di seguito. “La gente dice: ‘Dovete sentire che non è proprio vero, Mansour ha pagato per il successo, e questo dovrebbe svalutarlo’. Io non ho mai sentito nemmeno una iota di tutto questo” spiega Owen. Lo sceicco ha sfidato solo una volta il clima di Manchester da quando ha comprato i Blues nel 2008 per 241 milioni di dollari in una sorta di svendita dopo che le autorità thailandesi hanno messo sotto indagine con l’accusa di corruzione il precedente proprietario, il primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra. Ma l’investimento di Mansour ha attratto altri da più assolati lidi: Yaya Touré dalla Costa d’Avorio, Pedro Zabaleta dall’Argentina, David Silva dalla Spagna. Nel 2009 la punta argentina Carlo Tevez ha viaggiato solo poche miglia, levando le tende dallo United per spostarsi al City, ma poco dopo ha dato la colpa al clima per un attacco di nostalgia che lo ha spinto a prendersi una vacanza non autorizzata dal club (ora è rientrato in squadra). Lo scorso inverno è tornato alla sua terra natale per crogiolarsi sulla spiaggia e nell’arsura della celebrità, per poi spiegare all’ospite di un talk-show che cosa non gli piaceva di Manchester: “Il clima, tutto. Non ha niente”. Balotelli tenta di dare un’aria più positiva alla vita in Inghilterra. La pioggia non gli da fastidio, spiega, “perché non esco mai...quindi può piovere quanto vuole, ma io sono in casa”. I paparazzi locali smentiscono regolarmente l’immagine del Mario chiuso in casa seguendolo nei locali notturni. E anche in casa sua, Mario non è necessariamente al sicuro dal finire in quei pasticci che hanno fatto crescere la sua notorietà e rischiato di peggiorare il suo gioco. La sera prima della vittoria decisiva con lo United lo scorso ottobre, i pompieri hanno risposto a una chiamata dalla villa affittata da Balotelli nel Cheshire. Un fuoco di artificio partito dal bagno ha provocato un principio di incendio. Ha espiato le colpe per questo incidente - del quale ha accusato un anonimo amico - tre volte: con i suoi due gol allo United e il suo ruolo in una campagna di pubblicità progresso che incoraggia a usare mille cautele con i fuochi d’artificio. Come il bambino incontenibile che continuava a calciare la palla in casa, il Balotelli adulto non ha un rapporto lineare con l’autorità. Rispetta alcuni dei suoi rappresentanti e si affida a loro - dopo la sua famiglia, Mancini, che lui descrive “come un padre”, è stato una figura chiave della sua vita - ma non obbedisce sempre a queste figure parentali. Nella sua intervista del 2008 a Sportweek ha ragionato ad alta voce sulla sua tendenza a reagire alle provocazione sul campo “e su come questa sia legata all’abbandono”. José Mourinho, oggi al Real Madrid, ha avuto un rapporto litigioso con Balotelli quando il tecnico portoghese allenava l’Inter. Ora entrambi sembrano vederne solo il lato divertente: “Potrei scrivere un libro di 200 pagine sui miei due anni all’Inter con Mario. Quel libro non sarebbe una tragedia, ma una commedia” ha detto Mourino alla Cnn. Balotelli concorda: “Eravamo due persone divertenti messe assieme, ma il protagonista sarebbe lui, non io”. Come predecessore di Mourinho all’Inter, Mancini ha visto il potenziale di Balotelli, dandogli spazio in prima squadra quando aveva solo 17 anni. È stato Mancini che più tardi ha tentato Balotelli attirandolo al City. Di questi tempi il tecnico non sembra sicuro sul futuro del suo protetto. “Ogni giorno dico a Mario che ho esaurito la pazienza, ogni giorno .- dice Mancini -. Conosco Mario da 6 o 7 anni e con me ha giocato per la prima volta in prima squadra. Per questo lo conosco molto bene, e posso dire che il suo talento è incredibile”. Quel talento, teme Mancini, è messo a rischio da una mancanza di concentrazione. “Deve pensare solo al suo lavoro, deve pensare che gioca in una squadra molto importante e che deve comportarsi sempre bene. Perché la carriera di un giocatore è molto corta”. Un problema come Mario Il City è probabilmente il più amichevole dei club della Premier League, la migliore famiglia surrogata che un giocatore possa augurarsi. La sua ricchezza è troppo recente perché il suo staff possa darsi delle arie. Fondato nel 19esimo secolo dalla figlia di un vicario che voleva portare gli impiegati di Manchester fuori dai pub e verso un’attività sociale più sana, il club ora deve badare a tenere i suoi ragazzi lontani dai pub e in buona salute. “Nessuno può prevedere cosa ti riserverà la vita alle prime ore del mattino. Che siano liti di vicinato, invasioni dei giornalisti o la necessità di un aiuto domestico noi siamo qui per te, dietro l’angolo” promette il libretto consegnato dal club ai giocatori. Per Balotelli, straniero in una terra straniera, il soccorso del City è stato decisivo nell’aiutarlo a gestire i fuochi d’artificio che sembrano esplodere così spesso nella sua vita piena di eventi. Si è legato a Patrick Vieira, un ex top player che ha giocato in Inghilterra e Italia e ora al City si occupa di fare da chioccia ai talenti emergenti. “Voglio bene a Mario, e mi arrabbio con lui quando qualche volta sbaglia - dice Vieira -. Ma è una persona gentile e adorabile, con un gran cuore”. Vieira individua nella differenza di cultura tra il calcio italiano e quello inglese uno degli ostacoli che Balotelli deve superare. Mario spesso è dipinto come una prima donna, troppo concentrato sul conteggio dei suoi gol e troppo poco sul gioco della squadra, ma Vieira spiega che “gli attaccanti italiani non sono abituati a difendere. Mario non è abituato a seguire i difensori. Gli attaccanti in Italia devono fare gol, ma in Inghilterra noi gli chiediamo di lavorare per la squadra, di difendere. Mario non ha avuto questa educazione calcistica”. L’ostacolo più ostico, comunque, è lo stesso Balotelli, con il suo straordinario talento per il calcio e la sua straordinaria capacità di comprometterlo. “Qualche volta discuto con lui, gli chiedo ‘Perché fai tutte queste stupidaggini? Non sono da te’. E lui ride, perché sa che è vero”. Ha fatto una scommessa con Balotelli sul fatto che il ragazzo quest’anno si controllerà. Non vuole spiegare i termini esatti, ma sicuramente non è una scommessa sicura. E non è sicuroa nemmeno che i fan di Balotelli vogliano che il loro idolo impari a comportarsi, o che farlo sia davvero nei suoi interessi finanziari. Potrebbe non essere giudicato il giocatore più forte del mondo - e forse non si renderà mai conto del suo potenziale - ma è già il più grande personaggio del calcio internazionale, magnetico, divertente, sorprendente e spendibile sul mercato. La sua domanda “Perchè sempre io?” ha ispirato una canzone del rapper ghanese-britannico Inchy Stryder. Balotelli e Stryder successivamente hanno collaborato con il produttore di abbigliamento sportivo Umbro per produrre una maglietta basata su quello slogan. C’è un coro che i tifosi del City cantano quando gioca Balotelli: “Lui fa quello che vuole, fa quello che vuole. Balotelli, lui fa quello che vuole”. “Lo odieremmo se non giocasse per noi” dice il tifoso Owen. “Lo amiamo perché è nostro, perché è un giocatore fantastico e pazzo. Se giocasse per lo United sarebbe sicuramente quello da odiare. È sbruffone, arrogante, fantastico...ed è nostro”. L’ultimo punto potrebbe non essere vero per molto, se Mancini esaurisce la pazienza o gli istinti di Balotelli lo portano altrove. Raiola si rifiuta di commentare le ventate di speculazioni sul fatto che il suo cliente voglia tornare in Italia per giocare con il Milan, ma aggiunge “che il fatto che Mario sia richiesto non è in discussione”. E le decisioni che Balotelli prende non determinano solo i colori della prossima maglia o la sua possibilità di giocare al sole o sotto la pioggia; potrebbero piuttosto dare una forma o distruggere la sua eredità, dargli la stabilità necessaria ad avere successo o aiutarlo a dilapidare quell’incredibile talento. Balotelli, come il suo club, il suo paese e il suo continente, è in transizione. Nessuno può prevedere come finirà la partita.