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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

QUELLI CHE IN SIRIA COMBATTONO ANCHE CON L’IRONIA


La vita di Bishu non è facile: con le sue orecchie a sventola, il naso grosso e la sua insicurezza, non è proprio un modello di politico autorevole. Figlio di un presidente-dittatore che gli fa ombra anche dall’oltretomba, intrappolato in una carica che non ha mai voluto, ogni giorno cerca inutilmente di domare un popolo che di lui non ne vuole più sapere. E, bombardamento dopo bombardamento, morti dopo morti, continua con testardaggine a chiedere libertà: allo spettatore, Bishu ispira un sorriso e persino, a tratti, tenerezza. Ma mai paura: e la chiave del suo successo sta tutta qui.

Bishu è una versione marionetta di Bashar al-Assad, il presidente che da un anno e mezzo tenta di soffocare nel sangue la rivolta in Siria. E Top Goon: diari di un piccolo dittatore, la serie di animazione di cui è protagonista, si cimenta in una parodia di lui e del suo clan: la Rosa di Damasco, ovvero Asma, sua moglie; un terribile militare in divisa e basco, il simbolo delle milizie del regime; e, coprotagonista involontario, il pacifico cittadino che si ribella. Il quale, episodio dopo episodio, viene picchiato, decapitato, minacciato o arrestato. «Volevamo dare un messaggio chiaro, che arrivasse anche ai cittadini più semplici: basta aver paura. Si può prendere in giro Bashar, se questo poi serve a non tremare davanti e lui. E ci si può ribellare di fronte alla sua violenza» dice Orwa, lo sceneggiatore della serie.

Fino a un anno e mezzo fa, Orwa non era che uno studente qualunque in Siria. Ma quando la rivoluzione è iniziata si è unito alle migliaia di siriani che, come in Tunisia e in Egitto, erano scesi in piazza per manifestare. Poi, insieme ai suoi amici creativi, ha deciso di fare di più: si sono riuniti nel collettivo Masasit Mati e hanno creato Top Goon, una soap opera che viene diffusa via Internet e che per mesi ha tenuto incollati i siriani ai computer, nell’attesa spasmodica di ogni nuovo episodio che, una volta alla settimana, veniva messo in rete. Il successo della serie è stato tale da mettere in pericolo i suoi autori: a lungo il regime ha cercato di capire chi si nascondesse dietro quelle marionette irriverenti. Orwa è stato arrestato e torturato: se oggi è libero è solo perché non sono riusciti a trovare le prove per collegarlo alla sua opera. Dopo quella esperienza e dopo aver assistito alla morte di alcuni dei suoi più cari amici si è unito alle brigate del Free Siryan Army, l’esercito dei ribelli.

Ora è in esilio, all’estero. Ed è pronto a raccontare la sua esperienza, sebbene motivi di sicurezza gli impongano di non rivelare il suo cognome. «Capisco che, con quello che sta accadendo, parlare di marionette possa sembrare strano» dice. «Ma noi volevamo raccontare quello accadeva in un linguaggio alla portata di tutti, anche fuori dai confini siriani. A lungo i giovani istruiti come me sono stati lontani dalla politica: non c’era spazio per noi, nulla che potessimo dire. Oggi, a causa della rivoluzione, viviamo nella politica: e pensiamo sia nostro dovere dare voce in ogni modo possibile alla popolazione siriana e a quello che sta succedendo. Potremmo combattere, alcuni di noi lo stanno facendo: ma la Siria non è solo guerra e sangue, ci devono essere modi diversi di stare con la rivoluzione».

Top Goon non è che uno dei mille volti di un fenomeno che in Siria è iniziato insieme ai primi moti di rivolta, più di 18 mesi fa, e che è cresciuto parallelamente, invadendo Internet, i muri di Damasco, le pagine dei giornali clandestini.

La dissidenza creativa è un’esplosione di creatività dal basso: canzoni, video, vignette, poster che, partendo dagli slogan ufficiali del regime, li rovesciano con ferocia e ironia per gridare con la voce dell’arte lo stesso slogan che migliaia di persone urlano nelle strade: «Libertà e basta».
Alle origini di questo fenomeno c’è una matita: quella di Ali Ferzat, il più famoso disegnatore satirico siriano. Fin dagli anni Settanta, Ferzat, con le sue vignette, ha preso di mira la corruzione, il nepotismo, la resistenza al cambiamento che, secondo lui, paralizzavano la Siria. Lo ha fatto - con difficoltà - ai tempi di Assad padre. E con orgoglio e rinnovato vigore ha ricominciato all’inizio della presidenza di Assad figlio, che gli aveva fatto sapere di essere un suo ammiratore e che avrebbe protetto il suo lavoro. In quel periodo Ferzat si illuse che per la Siria si schiudessero le porte del cambiamento: sbagliava. Dopo un paio di anni le intimidazioni contro lui e il suo giornale cominciarono a moltiplicarsi. La situazione degenerò fino a quando, il 25 agosto 2011, venne aggredito e rapito nel centro di Damasco: quando fu rilasciato, poche ore dopo, le ossa delle sue mani erano tutte rotte.
Oggi i disegni di Ferzat sono in mostra in un’esposizione alla Galleria Prince Claus Fund di Amsterdam, dove resteranno fino a fine novembre: accanto ad essi ci sono altri esempi della resistenza creativa made in Siria. I filmati del collettivo Abou Naddara che ogni venerdì mette in rete una parodia della situazione siriana, le parole di scrittrici come Samar Yazbek e Rosa Yassin Hassan, costrette alla fuga per le loro posizioni, i poster che prendono in giro o manipolano quelli ufficiali. E infine le foto dei tanti graffiti che affollano i muri di Damasco, Homs e le altre città del dissenso.
«Quello di cui partiamo è il lato artistico del movimento pacifico che ha dato origine alla rivolta», spiega Donatella Della Ratta, esperta di media arabi, anima del blog Mediaoriente.com e curatrice della mostra di Amsterdam. «Con il tempo i gruppi armati hanno assunto sempre più il ruolo di primo piano. Ma questo movimento pacifico è ancora attivo, soprattutto nelle grandi città, e resiste nonostante la violenza che dilaga e che attira tutta l’attenzione della stampa».
Per Della Ratta, che da anni segue la realtà siriana, quella del dissenso creativo è una rivoluzione dentro la rivoluzione: «A lungo in Siria la creatività era rimasta addormentata: la gente subiva passivamente i messaggi del regime. Oggi li riceve, li trasforma e glieli rimanda indietro: non basterà a far cadere Bashar, ma è un messaggio politico importante». La studiosa vorrebbe farlo conoscere anche al pubblico italiano: dopo una incursione al Festival della rivista Internazionale a Ferrara, lei e i suoi colleghi sono alla ricerca di partner per far sbarcare l’iniziativa completa anche da noi.