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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

Obama è solo l’inizio, siamo ancora divisi per razze – NEW YORK. «Vidi una foto di Obama durante la campagna del 2008 che mi folgorò: era così cool

Obama è solo l’inizio, siamo ancora divisi per razze – NEW YORK. «Vidi una foto di Obama durante la campagna del 2008 che mi folgorò: era così cool. Decisi di capire in cosa consisteva il carisma di quell’uomo venuto dal nulla, la forza del messaggio che quel senatore, con la sua sola presenza, emanava...». È nato cosi Black Cool, nero è bello, l’ultimo libro della scrittrice americana Rebecca Walker. Un saggio che indaga sull’essenza della cultura afroamericana partendo da un’icona che le riassume tutte: Barack Obama. E chi se non lei, Rebecca figlia di Alice Walker, l’autrice nera che col suo capolavoro, 77 colore viola, vinse il Pulitzer per la letteratura nel 1983, e di Mei Leventhai, famoso avvocato ebreo per i diritti civili poteva occuparsi di un tema tanto delicato? La questione dell’identità l’ha inseguita fin dalla culla: quando l’infermiera dell’ospedale di Jackson, Louisiana, nel cuore dell’America segregazionista dov’è nata nel 1969, pose il quesito che sarebbe diventato il centro del suo lavoro. Che cosa scrivere sul certificato di nascita di quella bambina dalla pelle color caffelatte: negro come sua madre o caucasian come il padre? Lo stesso quesito che era stato posto, pochi anni prima, ad Ann Dunham: la mamma bianca di quello che sarebbe diventato il primo presidente nero d’America. A 43 anni Rebecca Walker, teorica della «terza onda» femminista, l’autrice del best seller Baby Love sulla maternità consapevole, è uno di quei simboli dell’America nata dalle ceneri di un passato razzista, un’icona del’America post-razziale: tanto da essere segnalata da Time fra i «50 futuri leader d’America». Nel 2000 esordì con Black, White and Jewish, sua prima esplorazione nell’ambito dell’identità multirazziale. Ma è con Black Cool che ha fatto una scelta di campo. Lo spiega davanti a un bicchiere di limonata in un caffè di Brookliyn: «Nella figura di Obama c’è un’intera cosmologia. Una cultura specifica, quella africana, che include elementi come l’audacità: che lui ha trasformato in slogan, ovvero il coraggio di tentare qualcosa mai fatta prima. E poi la passione. L’autenticità. Perfino il senso di preservazione culturale: guardate la sua famiglia, cosi solida, inossidabile, cosi black». Colpisce che proprio lei parli così: siete entrambe birazziali. «Certo, è uno status che non ti permette di identificarti con una sola razza. Non è difficile essere birazziali, nasci così, appartieni a tutte e due. Ma è difficile per gli altri: sono loro che hanno bisogno di griglie, di confini. È stato Obama stesso a spiegarlo in un discorso: "Mi identifico con gli afroamericani perché è cosi che vengo visto e trattato. E ne sono fiero". In altre parole non ha avuto scelta. Io preferirei definire quelli come me e Obama semplicemente "esseri umani". Ma questo infastidisce la gente. Lui è nero: ma non del tutto. È bianco: ma non del tutto. Beh, è molte cose diverse e nessuna esclude necessariamente le altre. Molti, poi, sottovalutano il fatto che sia nato alle Hawaii, dove io stessa ho scelto di far crescere mio figlio perché è una società veramente multirazziale. E soprattutto sottovalutano il suo imprinting asiatico: gli anni della formazione in Indonesia. Lui ha un modo di mediare, di essere paziente e insieme forte che è profondamente asiatico». Cosa ha significato per gli afroamericani l’awento di Obama? E questi quattro anni quanto hanno cambiato la loro percezione? «È stata un’esperienza potente per tutti gli americani vedere un politico afroamericano con così tanta dignità e passione, diventare presidente. Certo è un’esperienza che parla soprattutto ai neri. Gli asianamerican, gli asiatici che ormai in America rappresentano il 6 per cento della popolazione, sono ancora lontani da una conquista del genere. Ha mai sentito parlare non dico di un presidente, ma di un vicepresidente asiatico? È vero, si parla di fine delle razze: è il futuro, e un uomo come Obama lo dimostra. In questo il cambiamento demografico sarà fondamentale: l’America non sarà dominata dai bianchi ancora per molto, è un dato a cui non ci si può sottrarre. Ma se ci considerate un Paese multirazziale, vi sbagliate. Voi avete soprattutto divisioni sociali: noi quelle razziali. È vero, abbiamo trovato il modo di non ucciderci l’un l’altro e non è neanche sempre vero, guardi il caso di Trevyon Martin, il ragazzine nero ucciso solo perché indossava un cappuccio che lo rendeva sospetto. Ma non siamo ancora una società post razziale. Obama è il primo passo. È un progetto, un cammino». Eppure molti neri lo accusano di comportarsi troppo da bianco. I bianchi troppo da nero... «Sta facendo del suo meglio per essere il miglior presidente di tutti. Certo, deve procurarsi l’appoggio di lobby forti, capaci di versare milioni di dollari. Deve fare compromessi. Chi ha pensato che avrebbe cambiato magicamente il sistema, si sbagliava. Anch’io avrei voluto che fosse stato più attento a certi punti, più coerente. Ma sono consapevole della sua posizione. Fa un lavoro terribile e lo fa bene. Sì, ci sono neri che pensano che non ha fatto abbastanza per la sua gente. Con la crisi, la classe media afroamericana è quella che più ha perso benessere economico. Si chiedono qual è il piano per essere sicuri che quel benessere, che significa anche certe conquiste, non vada perduto. È per questo, penso, che finiranno per votarlo. Non so, invece, qual è il problema dei bianchi. Forse hanno la memoria corta sulle divisioni razziali e lo criticano per quel che è: nero» Eppure questa volta non sembra esserci la mobilitazione del primo mandato. La gente è demotivata. Dove sono gli intellettuali, i musicisti, gli scrittori? «Quattro anni fa la candidatura di Obama fu un gesto d’audacia: e così fu la campagna, che doveva essere un manifesto di forza. All’epoca gli artisti, gli scrittori non potevano non essere in prima linea, bisognava tenere alta l’attenzione. Questa volta è un gioco di strategia. Obama ha ormai credibilità: deve semmai occuparsi degli Stati banderuola, quelli incerti. Si concentra su un numero minore di votanti, conservatori e indipendenti. La sua campagna è mirata a loro. Non deve conquistare i neri: la gente ha fiducia in lui, abbiamo visto cosa sa fare di concreto. E poi quattro anni fa molti di noi uscirono dalla campagna elettorale esausti: ci volle molta energia per portarlo alla presidenza. Io, ma so di molti altri, avevo fatto così tante telefonate che, dopo la sua elezione, sono rimasta a letto per giorni. Questa volta non ce ne sarà bisogno, non può essercene bisogno. Mitt Romney è semplicemente assurdo. Penso coche potevamo dare. Ma non abbiamo quella stessa determinazione da sfida impossibile. E non perché non ci crediamo più». Vincerà Obama? ALLA CASA BIANCA «Comunque vada, vincerà il senso di comunità: è nella nostra Costituzione, nel nostro dna: prendersi cura degli altri. Non lo condividono tutti, non ci sarebbero i repubblicani altrimenti. Ma questa è la promessa dell’America. Noi che siamo stati nemici al punto di essere nati dalle ceneri di una guerra civile, siamo una cultura che progredisce. Comunque vada, Obama è un punto di non ritorno».