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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

SCORIE RADIOATTIVE DALL’EST

Mentre inghiottiva i sacchi neri del­l’immondizia, l’inceneritore s’è bloccato di colpo: «Allarme ra­dioattività». Qualcuno aveva gettato nel cas­sonetto un apparecchio gammagrafico, co­struito con piombo e uranio impoverito, di solito adoperato per radiografare metano­dotti e condutture industriali.
Stavolta il segnale di pericolo è scattato a Pa­rona, nel Pavese, la notte del 23 ottobre. I di­spositivi di controllo hanno evitato la con­taminazione. «Se l’apparecchio fosse stato incenerito – spiegano dall’agenzia regiona­le per l’ambiente –si sarebbe dispersa ra­dioattività nell’aria». Chi l’aveva nascosto tra i rifiuti urbani voleva risparmiare sugli in­genti costi di smaltimento del materiale ra­dioattivo. E non è la prima volta. Da Trieste alla Calabria ripetutamente nei termovalo­rizzatori i sensori anti-radiazioni hanno fer­mato le macchine. Quasi mai, però, la noti­zia riesce a filtrare. Il business della munnezza radioattiva è ge­stito da organizzazioni criminali grazie a co­perture nei palazzi che contano. Alle volte le scorie finiscono nei porti africani. Al­tre, direttamente a casa nostra.
Un pericolo che insidia anche l’industria si­derurgica. Alla Feralpi di Lonato del Garda (Brescia) entrano, ad esempio, 300 camion di rottami al giorno: è solo una piccola par­te dei 19 milioni di tonnellate ingurgitate o­gni anno dalle acciaierie italiane. Una ’fa­me’ sfruttata dalle mafie transnazionali, che gettano bocconi avvelenati nei carichi de­stinati ai forni. Dopo l’incidente del ’97 all’Alfa Acciai di Bre­scia, dove la fusione accidentale di cesio 137 provocò danni all’ambiente e allo stabili­mento, le fonderie italiane si sono dotate di portali radiometrici, che servono a intercet­tare gli scarti contaminati. «L’allarme suona almeno quattro volte all’anno», spiega Er­cole Tolettini, responsabile ambiente e sicu­rezza del gruppo Feralpi. Un anno e mezzo fa si trovò di fronte una specie di cubo me­tallico. Era pesantissimo. «Scoprimmo che si trattava di uranio impoverito, probabil­mente un contrappeso usato nell’industria. Proveniva da un fornitore italiano». Nessun canale di approvvigionamento è sicuro: la minaccia può arrivare da qualsiasi parte. «Per ridurre i rischi bisogna selezionare i fornito­ri: meglio pagare di più i rottami e sentirsi si­curi, piuttosto che fondere materiale di dub­bia provenienza», spiega Giuseppe Pasini, presidente della Feralpi e per dieci anni nu­mero uno di Federacciai. Scegliere, però, non è facile. «Nel traffico di rottami radioattivi c’è la mano della crimi­nalità organizzata. E non mi sento di dire che gli scarti contaminati arrivano solo dall’e­stero. Anzi, in molti casi provengono proprio da raccoglitori italiani. Quando la Beltrame di Vicenza, nel 2004, bruciò un bidone di ce­sio 137, si scoprì che era stato spedito da Poz­zuoli ». In quel caso, come in tanti altri, la ’sorgente orfana’ radioattiva era scherma­ta da un contenitore di piombo, segno ine­quivocabile della volontà di beffare i con­trolli. In Spagna, nel 2008, se ne scoprì uno camuffato da rottame già compresso. Anche per questo, i portali all’ingresso delle ac­ciaierie non bastano per tenere lontano lo spettro radioattivo.
«Bisogna aumentare i controlli alle frontie­re, specialmente nei porti», taglia corto Pa­sini, che lancia anche un allarme preciso: «Gli strumenti per effettuarli ci sono, ma in molti casi manca il personale per farli fun­zionare. E così può passare di tutto, anche ac­ciaio contaminato. Bisogna fare attenzione soprattutto alle partite in arrivo dall’Est eu­ropeo e dall’estremo Oriente». Se non alzerà la guardia, l’Italia potrebbe trovarsi a fron­teggiare scenari inquietanti: «Il progressivo abbandono del programma nucleare da par­te di diversi Paesi, Germania inclusa, po­trebbe scaricare sul mercato una mole e­norme di rottami radioattivi. Bisognerà vi­gilare sui flussi provenienti dalle zone delle centrali dismesse».
Le insidie, però, arrivano da ogni parte. La stessa Feralpi custodisce in un deposito sor­vegliato giorno e notte ben sei ’sorgenti or­fane’, tra cui un quadrante di una Jeep mi­litare e uno di un caccia: si tratta di strumenti luminescenti che utilizzano elementi ra­dioattivi.
Lo smantellamento dell’arsenale ex sovietico è una delle maggiori fonti di preoccupazione. Lo sanno bene a Sarezzo, ancora nel Brescia­no, dove nel 2007 vennero scaricati e fusi rot­tami provenienti dal Mar Caspio. Quando le scorie arrivarono in un impianto di recupero in Val Seriana, nel Bergamasco, gli allarmi im­pazzirono: nel tir c’erano tracce di cesio 137. Il camion fu sequestrato e lasciato nello sta­bilimento per mesi. Le indagini portarono dritte nell’ex Urss. E lì si dovettero fermare. Due le ipotesi: il cesio poteva provenire da pezzi di un velivolo dell’armata rossa, oppu­re da un sottomarino nucleare smantellato. Un sommergibile, si sospetta, appartenente alla classe Oscar, proprio come il Kursk, affon­dato il 12 agosto del 200 al largo del Mar di Ba­rents e nel quale perirono per asfissia tutti i 118 uomini dell’equipaggio.
Tra i rottami finiscono spesso anche pezzi contaminati di piattaforme petrolifere: le tri­velle, scavando in profondità, entrano in contatto con la radioattività naturale del sot­tosuolo. Se le sorgenti orfane vengono fuse, si è costretti a stoccare prodotto e scorie con­taminati in sarcofaghi di cemento armato. «Cosa ne facciamo di questi mucchietti ? », si domanda Pasini. In Italia, infatti, «non esi­ste un deposito specifico: nessuno ci dice dove metterli e così dobbiamo tenerceli».