Enrico Deaglio, il venerdì 2/11/2012, 2 novembre 2012
AMERICA, SEMBRA IL WATERGATE: ATTENTA ALLE BUGIE
[ROBERT REDFORD]
La scena finale sembra il riassunto della sua vita: l’icona romantica del Ventesimo secolo, il liberal, il sex symbol, il difensore dell’ambiente, corre nella radura inseguito da cani ringhiosi e coperto dal flap-flap-flap dell’elicottero dell’Fbi, nero come l’avvoltoio. E non è una controfigura: quell’omino con i capelli rossicci, con i grandi occhi azzurri
spaventati per un possibile infarto, che si appoggia al tronco di un pino, ansimando, madido è proprio Robert Redford. Alla bella età di 75 anni. Altri biografi dicono 76, ma è comunque una performance di tutto rispetto.
Ed è lui che si autodirige, in un film che più politico non si può – The Company You Keep – storia e, in qualche maniera, omaggio a un gruppo politico di estrema sinistra, che alla fine degli
anni Sessanta piazzò parecchie bombe e fece non poche rapine per protesta contro la guerra in Vietnam. Il film farà storcere la bocca a molti benpensanti, ma Redford ha voluto togliersi una soddisfazione. E può farìo: è uno degli ultimi miti viventi dell’America liberal.
Se l’82enne Clint Eastwood il duro, l’anarchico, il violento è stato scelto dai repubblicani per incarnare l’America ingrugnita, che vede nel primo presidente afroamericano la causa di tutti i suoi guai, Robert Redford è invece quanto di più attraente il partito democratico possa offrire. E lo è da mezzo secolo, il che, a conti fatti, fanno due generazioni di donne americane.
Quando gli sei davanti, come succede in genere per i divi del cinema, ti stupisci: «Toh, non è poi così alto». Per il resto, sa come conquistarti È gentile, quasi timido; ha mantenuto, mi pare senza grandi trucchi, l’attaccatura e il colore dei capelli di alcuni decenni fa; mostra un’invidiabile elasticità osteo-articolare quando si china a raccogliere un acino d’uva cascato sul pavimento; e in generale trasmette l’idea di una integrità fuori dal comune, leggera, sotto il peso dell’età e di mezzo secolo di carriera.
Oltre ad essere un conversatore molto piacevole, Redford promuove il cinema indipendente, adora la natura, non fuma, non beve, non dà materia ai gossip e versa da sempre sostanziosi contributi al Partito democratico.
Mr. Redford, il 6 novembre, chi vincerà e perché?
«Vince Obama». E poi aggiunge: «No choice», che vuol dire che non c’è scelta, non c’è alternativa, ma anche che è impensabile che vinca Romney. E se invece vincesse Romney?
«Allora, sarebbe terribile. Perché i repubblicani sono indietro di cent’anni e porterebbero indietro l’America di cent’anni. E siccome questo non è possibile, vincerà Obama».
Redford sa benissimo che la posta in gioco è altissima e che il risultato è incerto: a due settimane dal voto, il suo appello per il presidente (di grosso peso, a vedere il riscontro online) si è incentrato solo e unicamente sui meriti ambientalisti. Nel nostro colloquio, però, si è dimostrato attentissimo ai sondaggi, agli Stati in bilico, ai trucchi che può ancora mettere in campo l’informazione intossicata; alla fine, però, il suo è un ottimismo della ragione.
«Un terzo della popolazione in America è sempre restio a qualsiasi forma di cambiamento, Impaurito dalla modernità, aggrappato alle proprie tradizioni e spaventato di tutto quello che gli può essere portato via. Da un po’ di tempo, purtroppo, il Partito repubblicano ha scelto questa parte d’America come la sua unica base elettorale. Il movimento del Tea Party è la sua espressione; il razzismo alligna parecchio da quelle parti, e Obama è naturalmente il bersaglio; sventolano la Bibbia per attaccare la libertà delle donne; hanno facili argomenti contro la burocrazia di Washington, sono aggressivi, hanno una catena televisiva, la Fox, che li amplifica, ma alla fine non credo che riusciranno a vincere. Perché, in fondo, questa è una minoranza del Paese. L’essenza è un’altra, perché l’America è la storia di moltitudini che cercano il cambiamento».
Mr. Redford è un illuminista, una mosca bianca, uno snob, un privilegiato di Hollywood? Sydney Pollack, il suo grande amico e il regista che lo ha diretto per tutta la vita, diceva di lui: «All’apparenza era solo un giovane principe biondo, ma si capiva che sotto c’era qualcosa di molto più cupo. Era una metafora dell’America. Ed era particolarmente adatto alle parti in cui c’è passione, ribellione».
Lui, invece, ancora adesso, proprio perché parla a un giornale europeo, ci tiene a ricordare le sue debolezze. «Ero un ragazzo irlandese nato povero nei sobborghi di Los Angeles nel 1937; dopo la guerra sono diventato il solito adolescente ribelle senza costrutto, tra alcol e droga. Però ho potuto fare un viaggio in Europa, che mi ha cambiato la vita; l’Italia con l’Accademia di Belle Arti di Firenze – sono andato a scuola lì! – le pensioni che costavano niente, i viaggi in autostop, la bellezza abbacinante della Storia»; la Francia: «Io ero l’americano che aveva vinto la guerra, ma non sapevo neanche per che cosa avevamo combattuto. I ragazzi di Parigi invece sapevano tutto, mi prendevano in giro; la vergogna per la potenza del mio Paese e per la mia ignoranza mi ha accompagnato per tanto tempo» (Barbra Streisand, che è stata la sua storica donna dello schermo, conferma: «Bob era bello, ma difficile. Per portartelo a letto, dovevi dirgli che era colto»).
Quando tornò dall’Europa, quel ragazzo diventò qualcosa di più che una bella faccia e un paio di occhi azzurri. Gli capitò di raccontare l’America, in parte reale, in parte idealizzata, come un protagonista di celluloide, e quindi di diventarne il protagonista reale. Fateci caso, ma i film di Robert Redford sono le trame delle grandi scelte politiche del Novecento.
Ecco una prima, sommaria, lista:
1. Nei panni di Sundance Kid rapina dilettantescamente banche con l’amico Butch, ma la violenza del capitalismo uccide tutti e due. Tutti però tifavamo per loro. (Sfido, l’altro è Paul Newman). (Butch Cassidy, 1969)
2. Candidato politico esclusivamente per la sua bella presenza, si ribella e mostra di avere un’anima. Naturalmente vince le elezioni. Ottimista kennediano. (Il candidato, 1972)
3. Un ragazzo, che un tempo era stato un idealista, si sistema e diventa ricco, ma incontra davanti al Grand Hotel Plaza di New York Barbra Streisand, l’amore della giovinezza, che continua, sempre comunista, a raccogliere firme contro la bomba atomica. «Ma tu non molli mai!», le sussurra turbato. Lei gli passa una mano nei capelli. (Come eravamo, 1973); i dieci minuti finali sono (giustamente) considerati il più grande serbatoio di lacrime della seconda metà del Novecento (volendo essere pignoli, e rimanendo in politica, se la battono con l’infarto in tram di Ornar Sharif quando rivede Julie Christie, nel Dottor Zivago).
4. Ancora con Paul Newman, frega alla grande uno squalo mafioso, insieme ad un’accolita di proletari ai tempi della grande depressione. Praticamente, l’odierna utopia di Occupy Wall Street. (La stangata, 1973).
5. Spensierato intellettuale, viene assunto dalla Cia per analizzare dei testi letterari. Max Von Sidow fredda tutti i suoi colleghi e lui si trova da solo contro la Cia, quella deviata. Vince lui (Eaye Dunaway praticamente gli sviene davanti) e vince la libertà di stampa. (I tré giorni del Condor, anno 1975).
6. Anonimo cronista in un grande giornale, si applica (insieme a uno sfigato come lui) a un piccolo caso di corruzione con risvolti politici e arriva a far dimettere il presidente Nixon. La libertà di stampa è la forza della democrazia. (Tutti gli uomini del presidente, anno 1976).
7. Arriva in un carcere come sociologo antropologo, scopre soprusi, sadismo, assassinii di detenuti. Si ribella, perde la sua battaglia, ma lo applaudono. Sarà per la prossima (Brubaker, 1980).
E questo, fino a quando è stato attor giovane. Poi è cominciata la parte più inaspettata della sua carriera. Non solo regista raffinato, ma fondatore di una «Hollywood alternativa» sulle montagne dello Utah. Il Sundance Institute, nato nel 1981, in trent’anni è diventato il più importante laboratorio del cinema indipendente del mondo; senza scopo di lucro, luogo di formazione di centinaia di registi, montatori, sceneggiatori, musicisti. Di qui sono usciti Steven Soderbergh, il primo Quentin Tarantino, Jim Jarmusch, Christopher Nolan, e centinaia di documentari sulla storia recente americana.
Adesso, questo anziano signore naturalmente si schermisce quando gli si elencano i suoi meriti («Ammetto però di aver avuto un certo impatto nella società americana, perché, dopo il film, partì la moda di farsi crescere i baffi come Sundance Kid»), ma sa benissimo che non è stato solo quello. D signor Redford è stato per quasi mezzo secolo un’interfaccia con il sogno, con le speranze. Una specie, con rispetto parlando, di incarnazione ideologica del sogno americano. Per cui conviene prendere sul serio le sue affermazioni, an che quando possono apparire stravaganti. Per esempio, quando mi dice: «In America, la spinta è sempre verso il cambiamento. I guai arrivano solo quando il potere vi si oppone con la forza». Obama ha fatto sbagli?
«Molti pensano che Obama sia un presidente radicale, di sinistra; ma in realtà non è cosi. È la sua stessa biografia a dircelo: è mezzo bianco e mezzo nero, e quindi ha la necessità di essere accettato, di piacere sia ai bianchi che ai neri. È un avvocato, e quindi conosce l’arte del compromesso. È stato un organizzatore sociale, in una città dura come Chicago, e sa quindi cos’è davvero una trattativa. Ha dovuto conquistare un partito che lo aveva accolto con diffidenza. Essenzialmente, Obama è un grande mediatore, ma secondo me si è fidato troppo dei repubblicani. Però è stato un buon presidente: ha difeso l’istruzione pubblica, l’ambiente, la sua riforma sanitaria segue dei sacrosanti criteri di giustizia sociale. Sarebbe un vero peccato non avesse altri quattro anni di presidenza».
L’America è la sua politica, la sua
letteratura o il suo cinema?
«È sicuramente il suo cinema. Lo ha inventato, lo ha nutrito e ne è figlia». Lei è figlio del cinema?
«Assolutamente sì. E ho avuto la fortuna di potermi dedicare al cinema, soprattutto quello documentario. Quello che mi interessa è la scoperta della verità, scavare quello che c’è di nascosto dietro una storia, il contrasto con le verità ufficiali, le zone grigie che non vengono mai raccontate, ricostruire una memoria collettiva. E siccome so che il cinema è prima di tutto intrattenimento, voglio trovare, nelle storie collettive, l’elemento di passione e di emozione che leghi tutto il resto. Il contesto ha senso solo se c’è una grande passione in mezzo al film».
E questa, mi racconta, è la storia dell’America. «Noi abbiamo ereditato un Paese sorto con delle grandi libertà: libertà di pensiero, di espressione, di organizzazione. E le abbiamo usate!, questo è il bello. Sempre. In ogni momento della nostra storia ci sono state persone che hanno gridato, marciato per migliorare la propria posizione, per uscire dal la miseria, per conquistare diritti, anche per inventarsi dei diritti, che prima non si sapeva che esistessero. Questa è la grandezza dell’America. Il potere, la politica hanno il compito di aiutare questi desideri a diventare qualcosa di positivo;
ma spesso non lo fanno, il potere fa semplicemente muro e allora avviene lo scontro. Ma allora la colpa è del potere, non del popolo. Fermo restando che comunque, e questa è la mia opinione, il potere non temporaneo è sempre una fonte di corruzione».
Cosa porterà gli americani alle urne il 6 novembre?
«Molte cose, ma sicuramente prima di andare al seggio, guarderanno il famoso libriccino dove continuiamo ad anno tare entrate e uscite. Quanto costa il mutuo, quanto è aumentata la benzina. E potranno essere anche sensibili all’idea che stavano meglio prima che venisse Obama. Questo è il pericolo, l’America è anche un Paese smemorato». Mr. Redford, proprio lei, che è stato il cronista che ha svelato la verità!
«Purtroppo, oggi, la menzogna è molto più possibile che ai tempi del Watergate. E può essere diffusa su larga scala. È il maggior pericolo per la democrazia; e l’avvento di internet, secondo me, ha intorbidito tutte le cose. Troppa verità a troppo poco prezzo è uguale a nessuna verità. Io sono cresciuto in un tempo in cui i giornalisti televisivi parlavano lentamente penso a un personaggio come Walter Cronkite ponevano delle domande e si vedeva che erano interessati alle loro risposte. Adesso i giornalisti sono solo dei narcisi, sono solo interessati alle loro domande. Questo è un problema grave per il mio Paese. Abbiamo fatto una guerra sulla base del falso. E adesso ci portiamo i morti sulla coscienza».
Lei è un filmmaker. Se dovesse fare uno spot per Obama, cosa fumerebbe?
«Oh, è semplice. Direi semplicemente ai miei connazionali: calcolate come stavamo quando c’era Clinton e come stiamo dopo due turni di Bush. Li inviterei a non dare la colpa ad Obama, ma a riconoscere la verità. E cioè che otto anni di Bush ci hanno portato miseria, due guerre con incalcolabili perdite umane ed economiche e il nostro prestigio nel mondo ridotto a niente».
Facciamo una festa per il suo compleanno. Cosa le piacerebbe che venisse detto?
«È stato un bravo ragazzo. Ha dato retta a quanto gli succedeva intorno, e si è tenuto indipendente».
Secondo lei, il XXI secolo sarà un altro secolo americano?
«Forse. Difficile, però». Si ricorda quando ha votato la prima volta?
«Oddio, no. Aspetti, c’era Eisenhower. No, ero in Europa. Dev’essere quando sono tornato. Era il 1960 e ho votato Kennedy, mi sembra».