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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

SONO ANDATO SU MARTE


[Ashely Dale è un giovane ingegnere spaziale inglese che ha partecipato a una missione di simulazione della vita su Marte in una capsula nel deserto dello Utah. Ha raccontato la sua esperienza alla rivista "Physics World" e qui la racconta anche all’Espresso]

Forse, guardando le foto di Marte inviate dalla sonda Curiosity, vi siete chiesti come sarebbe vivere lassù. Io ve lo posso raccontare, perché ci sono stato. O meglio, sono stato per due settimane in qualcosa che è quanto di più simile vi sia, sulla terra, a una stazione marziana: la Mars Desert Research Station, nel deserto dello Utah, un modulo progettato per simulare la permanenza di astronauti sul Pianeta Rosso e compiere tutte le ricerche del caso in una situazione quanto più possibile vicina alla realtà.
Il mio viaggio verso Marte era iniziato alcuni mesi prima, nell’agosto del 2011 quando, da dottorando in ingegneria spaziale dell’Università di Liverpool, avevo partecipato al bando per il nuovo equipaggio della stazione, che avrebbe compreso sei persone in tutto; la missione era organizzata dalla Mars Society e dal Nasa’s Ames Research Center.
Con mia grande sorpresa ero stato preso e i miei sogni di bambino cresciuto tra la Namibia e il Sudafrica, spesso perso con il naso all’insù a guardare le stelle nel deserto del Kalahari e a chiedermi chi mai poteva aver appiccicato diamanti in quella volta nera, sembrava avverarsi.
E così, dopo settimane di scambi frenetici di email e preparativi febbrili, e dopo 15 ore di volo, sono arrivato in Colorado, a Grand Junction, dove ho incontrato i miei compagni di avventura: Alicia Framis, spagnola, giornalista e artista; Micheal LeClair, geologo canadese ma anche programmatore e psicologo; Usha Lingappa, astrobiologa statunitense; Mike Lotto, ingenere aerospaziale statunitense, e Charlotte Poupon, comandante della missione, designer industriale di ambienti estremi e ufficiale di marina, francese.
15 GIORNI IN UN CILINDRO
Non so bene se per simulare il viaggio tra la Terra e Marte o per caso, ma non abbiamo avuto neppure il tempo di riprenderci dal jet lag: all’aeroporto siamo stati presi in consegna da John Barainca, l’ingegnere che coordinava la missione, siamo saliti in auto e durante il tragitto abbiamo rivisto con lui per sommi capi ciò cui andavamo incontro. Poi, all’improvviso, dopo esserci addentrati per diverse ore in scenari che diventavano sempre più desolati, solitari e tinti di rosso, eccola, la stazione dove avremmo vissuto per 15 giorni: un cilindro di una decina di metri di diametro, realizzato in modo da poter essere agganciato (e poi sganciato da) un razzo, a due piani. Al piano terra c’era tutta la strumentazione per gli esperimenti: dalle seghe per tagliare la roccia ai microscopi, dai telescopi per scrutare il cielo agli incubatori e a tutti i computer. Ricordo di aver pensato che neppure nei telefilm si vedevano tanti strumenti tutti insieme. Allo stesso piano c’erano i bagni e le docce, alquanto modesti, ma, soprattutto, c’era la stanza di Eva (extra-vehicular activity), la mia preferita, con le sei tute spaziali e tutto ciò che occorreva per le missioni esterne, il mio regno ideale. Essendo un ingegnere, la mia parte di lavoro sarebbe infatti consistita nel provare i veicoli per le esplorazioni esterne e le campionature, ossia i modelli di qad simili a quelli in commercio ma adattati per le missioni marziane. Era il mio progetto e ora l’avrei sperimentato insieme al mio collega ingegnere, Mike. Non vedevo l’ora.
Al secondo piano la zona notte: sei cuccette da tre metri per uno e la cucina, più un’area relax per il (poco) tempo libero che avremmo avuto.
A quel punto Barainca ci ha illustrato nuovamente i compiti fondamentali dell’equipaggio: l’osservazione astronomica, le comunicazioni tra di noi e con la base Mission Support, il controllo del generatore diesel e quello del sistema di regolazione della temperatura interna, la verifica del livello delle acque, la manutenzione del sistema di filtraggio ad alghe delle acque della serra e molto altro. Le istruzioni fondamentali c’erano tutte. Barainca perciò ci ha salutato, ha aperto il portello e, lasciando per un momento entrare il freddo dei -12°C esterni, è scomparso nella notte, contro una luna pallida. La nostra avventura marziana era davvero iniziata.
Nonostante la stanchezza, il jet lag e le emozioni della giornata sono uscito, indossando per la prima volta la mia tuta spaziale. Per un momento ho spento la luce del casco, ho chiuso il respiratore e sono rimasto lì, fermo, a guardare l’assoluta oscurità che mi circondava (scorgevo solo il profilo indistinto delle montagne), nel silenzio più totale, consapevole del fatto che se avessi camminato per ore non avrei incontrato alcun essere umano. "Benvenuto su Marte", mi sono detto.
UNA GIORNATA PARTICOLARE
Sveglia alle 5 del mattino, abbondante tazza di caffè e prima riunione sulla giornata con gli altri, per decidere come organizzare il lavoro comune. Quindi ciascuno alle sue mansioni. Così iniziavano le giornate marziane. Poi io e Mike stavamo due-tre ore fuori prima di pranzo e due-tre ore dopo, a provare i veicoli che si utilizzano per lo spostamento tra le rocce (ci è capitato di farlo anche con la neve) e a cercare di capirne i limiti. In queste missioni non sono mancati gli imprevisti: un giorno per esempio, allontanandomi di qualche chilometro dal modulo per una caccia ai fossili, sono caduto giù da una duna. Mentre Mike, preoccupato, mi chiedeva se stavo bene e mi ricordava che il primo ospedale era a tre-quattro ore di auto, io ho avuto un solo pensiero: l’integrità della tuta. Anche una puntura di spillo, su Marte, può voler dire morte immediata, poiché la mancanza di pressione farebbe letteralmente bollire il sangue. Insomma, uscito per controllare un mezzo meccanico, mi trovavo a riflettere sulla consistenza delle tute, mentre una di loro mi rendeva la risalita di una duna alquanto faticosa. E questo accadeva spesso, perché tutti lavoravamo in parte per i nostri progetti, ma in parte per quelli comuni. Così, per esempio, Lingappa, l’astrobiologa, era venuta per studiare quella che viene chiamata vernice marziana, cioè uno strato di batteri, presente (forse) sulle rocce di Marte e in quelle del deserto dello Utah, che potrebbe dirci molto sullo sviluppo della vita su Marte, ma anche per studiare in che modo le tute spaziali limitano i movimenti e la capacità di raccogliere campioni. LeClair, il geologo, svolgeva missioni con e senza tuta, per vedere le differenze, ma verificava anche le potenzialità del laboratorio di bordo per le analisi geologiche. Poupon dirigeva la missione, ma lavorava anche con me e Mike, per esempio mettendo telecamere wireless e migliorando la dotazione per la raccolta dei campioni, e così via.
Per motivi di sicurezza, nessuno rimaneva mai da solo né all’interno né all’esterno, e la stazione non veniva mai abbandonata da tutti contemporaneamente, mentre per rendere realistica la simulazione, ogni comunicazione con la base aveva un ritardo di circa 40 minuti; tutto ciò che facevamo era ripreso da sei telecamere: sapendolo, temevamo che potessero catturare anche qualche immagine un po’ imbarazzante (per la verità non tutti: ogni mattina LeClair inquadrava il biglietto d’amore che inviava alla sua fidanzata).
Uno dei momenti più attesi della giornata era quello dei pasti: tutto il cibo era surgelato e liofilizzato, realizzato in modo da non dover aggiungere nulla. Non erano certo alimenti da gourmet, ma è indubbio che tutti aspettavamo quel momento per interrompere il lavoro, parlare e riflettere, e anche che ci si abitua a quel tipo di pasto, fatto importante se si pensa che una missione su Marte non potrebbe durare meno di una trentina di mesi. Di sera, poi, finivamo alcuni lavori di analisi dei dati e poi spesso guardavamo un film... di fantascienza.
I RISULTATI
È quasi incredibile quante riflessioni possano nascere in due sole settimane di un’esperienza così particolare. Per esempio Lingappa, l’astrobiologa, pensa che potrebbe essere possibile vivere su Marte: stando ai dati a disposizione oggi, un tempo lì i giorni dovevano durare quasi quanto i nostri, e cioè 24 ore e 37 minuti, e il pianeta aveva un buon clima e acqua in quantità. Se trovassimo il modo di sciogliere le acque oggi imprigionate negli oceani ghiacciati si potrebbe avere una seconda Genesi. Già, ma come? La mia ipotesi è che si potrebbero usare i gas serra per aumentare la temperatura ai poli di qualche grado, avviare lo scioglimento dei ghiacci e favorire la liberazione di altri gas dal suolo; dopo un secolo la temperatura esterna potrebbe arrivare attorno ai 7°C e l’acqua coprire un terzo della superficie del pianeta. L’aria, a quel punto, sarebbe rarefatta come può esserlo quella di alcune regioni del Nepal, cioè compatibile con la vita dell’uomo, anche se ci vorrebbero poi migliaia di anni per renderla davvero ottimale per noi. Nel frattempo si potrebbero piantare milioni di piante per aumentare l’ossigeno. I metalli necessari - sottolineava LeClair - probabilmente ci sono già tutti. Insomma, rendere abitabile Marte, con le tecnologie attuali e anche con quelle dei prossimi anni, sarebbe forse possibile, ma richiederebbe migliaia di anni. Ma è anche vero, come non mancava di commentare Poupon, che le nostre conoscenze potrebbero migliorare più in fretta e fornirci prima del previsto strumenti che oggi non possiamo neppure immaginare.
FEBBRE DA CABINA
Altri spunti di riflessione, poi, sono arrivati dalle nostre reazioni psicologiche alla convivenza, in particolare sulla cosiddetta febbre da cabina, cioè quel cambiamento di umore che può verificarsi quando si è costretti a vivere giorno e notte in ambienti ristretti, con pochissima privacy, e che spinge all’isolamento e alla depressione; a qualcuno di noi è successo, ma non a me, che ho avuto sensazioni molto positive. Ciò che è apparso ovvio, però, è che questi aspetti andranno studiati molto a fondo prima di mandare una vera missione su Marte. Un altro dato inatteso è stato lo spostamento del nostro orologio biologico, che tendeva ad andare in tilt e a influire negativamente sulla memoria: la presenza di orologi a bordo con l’ora della terra e di Marte e un calendario delle mansioni abbastanza rigido ci ha molto aiutati. Infine, non mancavano, ovviamente, considerazioni politiche sul futuro delle esplorazioni spaziali e sul progressivo ritiro delle grandi tradizionali potenze come Europa e Stati Uniti, a tutto vantaggio di altre come la Cina e l’India.
Tra una missione e una cena, le due settimane sono trascorse in un attimo. L’ultima sera ho voluto ripetere quanto avevo fatto la prima notte: uscire e per qualche secondo staccare luce e aria, godendomi lo spettacolo. Il bilancio - pensavo - è più che positivo, soprattutto dal punto di vista umano: nessuno di noi dimenticherà mai questa esperienza. Mentre mi perdevo nei miei pensieri, però, i miei compagni mi stavano già richiamando attraverso la radio del casco all’interno: era ora di riposare in cuccetta per l’ultima notte, il viaggio era davvero finito. Un’ultima considerazione, a quel punto, mi ha attraversato la mente: ho 23 anni e il mio, a Marte, è solo un arrivederci.