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 2012  novembre 01 Giovedì calendario

LA LUNGA MARCIA DI XI JINPING


Durante un celebre viaggio in Messico, Xi Jinping non aveva resistito. «Ma insomma, non esportiamo né fame, né rivoluzioni, che altro volete?», aveva risposto alle controparti messicane che chiedevano maggiori diritti umani in Cina. E poi aveva aggiunto una frase che in Cina è un insulto: «Ci sono alcuni stranieri con la pancia piena che non hanno altro di meglio da fare che puntare il dito contro il nostro Paese». Tre anni più tardi, all’uomo che la settimana prossima, a soli due giorni dalle elezioni presidenziali americane, diventerà per dieci anni il leader dell’unico partito alla testa della seconda potenza mondiale ci sarebbe molto da rispondere.
Xi Jinping e il futuro premier Li Keqiang ereditano un Paese che in dieci anni ha quadruplicato la sua economia, è diventato il primo esportatore mondiale, ha esteso una minima copertura medica dal 20 al 95 per cento della popolazione e ha eliminato quelle odiose tasse sui contadini che per centinaia di anni avevano causato rivolte. Soprattutto, mai in epoca moderna è stato più influente nel mondo. Ma, nello stesso periodo, in Cina il divario tra ricchi e poveri è cresciuto al punto che il 10 per cento della popolazione controlla quasi il 60 per cento della ricchezza; le piccole e grandi rivolte interne contro i soprusi di burocrati e politici sono aumentate e si contano in centinaia di migliaia; la sicurezza ambientale e quella alimentare sono diventate le principali preoccupazioni della recente classe media; la fuga all’estero dei capitali ha superato in quantità quella degli investimenti diretti esteri e la corruzione dell’élite politica ha assunto dimensioni insostenibili. Come testimoniano i ferventi commenti degli internauti a dispetto della severa censura, la popolazione ha ormai completa sfiducia nei suoi leader, sempre più visti come individui rapaci intenti ad arricchire le proprie famiglie a discapito degli interessi della nazione. Insomma, non solo la spinta ideologica che ha tenuto al potere il Partito comunista dal 1949 è completamente esaurita ma, con la crisi, anche quella economica traballa. Tanto più che diversi centri studi cinesi e perfino la Banca mondiale hanno avvertito del rischio della "trappola del reddito medio". Se non s’imbarcherà in profonde riforme, la Cina rischierà di trovarsi incastrata nel prossimo decennio in un’economia stagnante, con un costo del lavoro troppo alto per continuare ad attrarre investimenti e una struttura produttiva non abbastanza innovativa per stare al passo con quelle avanzate.
Il Paese guarda al futuro tra timore e incertezza. Non solo i più poveri ma anche le grandi famiglie dell’aristocrazia rossa, che nell’80 per cento dei casi spedisce figli e capitali all’estero. Spetterà agli uomini che l’8 novembre prenderanno in mano le redini del Partito comunista e, a marzo prossimo, quelle del governo trovare la chiave per recuperare la fiducia del popolo e sventare il pericolo di un terremoto sociale.
L’arduo compito ricade sulle spalle della cosiddetta "Quinta generazione" di leader, capeggiati dall’imponente e nobile Xi Jinping, figlio di Xi Zhongcun, uno dei protagonisti della rivoluzione maoista, scelto dall’ex presidente Jiang Zemin con l’approvazione dell’uscente Hu Jintao, e da Li Keqiang, alleato storico di Hu. I due saranno affiancati da altri cinque uomini la cui selezione sarà il risultato di una lunga e complicata lotta di potere tra le diverse fazioni del Politburo, il comitato composto da poco più di una ventina di membri che decide delle sorti della Cina dalla morte di Deng Xiaoping. Da allora a guidare collettivamente il Paese è stato un gruppo di uomini selezionati o in base alla nascita - i cosiddetti "principini", figli dei grandi eroi della rivoluzione comunista, come lo stesso Xi - o attraverso il tirocinio nella Gioventù comunista, dai cui ranghi è asceso Hu. Nessuno dei politici attuali è però salito ai gradini più alti senza la sponsorizzazione di uno degli uomini forti del Paese (la politica cinese è figlia delle "guanxi", le raccomandazioni). E tra questi, a dispetto del teatro delle nomine di novembre, il più potente è ancora il vecchio Jiang Zemin, l’ex presidente succeduto a Deng. «Se rimane vivo, nei prossimi anni nessuno conterà in Cina più di lui», spiega da Hong Kong Wen Yunchao, direttore del settimanale liberale "Isun Affairs".
Il ritorno sulla scena politica di Jiang, secondo Wen, segnala la mancanza di una leadership forte in tempi molto complicati per il partito comunista. L’ex presidente e i suoi alleati stanno cercando non solo di salvaguardare le proprie rendite di posizione, ma anche di capitalizzare sui sentimenti di quei politici alla ricerca di una guida salda che indichi la direzione da intraprendere, compito non riuscito al presidente uscente. «La salute di Hu Jintao non è buona, e comunque non ha fatto molto nei suoi dieci anni da presidente. Se il nuovo potere garantirà agli uomini di Hu la tutela dei loro interessi economici questi non avranno problemi a farsi da parte», sottolinea Wen. «L’era di Hu è stata più dannosa che positiva per la Cina», aveva scritto a settembre senza tanti complimenti uno dei grandi teorici del partito, Deng Yuwen, sul sito web del temerario settimanale "Caijin".
La scelta degli uomini del ristretto comitato rispecchierà tali equilibri. Una lista provvisoria era stata redatta da tempo ma poi ci si è messo il braccio destro di Bo Xilai - l’ex leader di Chongqing, campione del ritorno al marxismo - che, nel timore di essere ucciso, lo scorso marzo si è rifugiato nel consolato americano a Chengdu e ha accusato la moglie di Bo Xilai dell’omicidio del broker inglese Neil Heywood e lo stesso Bo di complicità e corruzione, stroncandogli così la fulminea carriera in quello che è stato considerato il più grande scandalo politico dai tempi di Mao. Tolto di mezzo Bo Xilai, considerato un uomo che avrebbe potuto con il suo carisma fare ombra a Xi Jinping, la corrente politica "di sinistra" si è ritrovata improvvisamente orfana, mentre i "destrorsi", come vengono chiamati i politici a favore di maggiori aperture economiche e politiche, ha sperato nell’avvento delle tanto attese riforme liberali.
Tra i cambiamenti più sollecitati c’è la riforma dell’obsoleto permesso di residenza che attualmente lega un uomo per sempre al suo luogo di nascita, impedendo ai milioni di contadini divenuti operai di rifarsi una vita dignitosa in città, e l’abolizione dei lavori forzati per i prigionieri. Ma è la cosiddetta "democrazia interna" l’obiettivo più ambizioso. Si tratta di una sorta di formalizzazione delle correnti interne al Partito che dovrebbe spingere a una maggiore trasparenza la classe dirigente in un momento in cui la prima minaccia alla sopravvivenza del Partito è la sua corruzione. Lo scandalo che ha portato all’incarcerazione di Bo e della moglie non solo ha scoperchiato il vaso di Pandora delle ricchezze illecite ammassate dalle famiglie degli alti papaveri negli ultimi vent’anni, ma ha anche dato fuoco alle polveri delle vendette incrociate. L’agenzia di stampa "Bloomberg" ha svelato un paio di mesi fa che la famiglia del futuro presidente Xi detiene proprietà immobiliari per 24 milioni di dollari e partecipazioni aziendali per oltre 300 milioni. La settimana scorsa è stata invece un’esplosiva indagine del "New York Times" a rivelare come la famiglia dell’attuale premier Wen Jiabao - considerato campione della lotta contro la corruzione e delle riforme politiche - abbia accumulato una ricchezza di 2,7 miliardi di dollari nei 15 anni in cui Wen è stato al potere. E siccome nemmeno l’esercito è stato immune da questa corsa all’oro, la "Reuters" ha fatto sapere che il generale Gu Junsheng si sarebbe costruito una villa del valore di svariati milioni di dollari nel centro della capitale. Tutte le notizie sono state immediatamente censurate da Pechino, ma la rete non è impermeabile, e la rabbia dei cittadini aumenta. E, con la rabbia, cresce anche sia il numero di voci in favore delle sempre più inevitabili riforme, sia quello di chi, per paura di perdere i propri privilegi, chiede di andarci cauti con liberismo e democrazia. La lotta per la sopravvivenza all’interno del partito non è mai stata così violenta.
Anche i generali dell’esercito che formeranno la nuova Commissione militare centrale sono stati scelti tutti tra i fedelissimi al partito e non alla nazione. Tra loro è stato escluso il celebre Liu Yuan, sostenitore della necessità di maggiore democrazia e colpevole di avere denunciato il generale Gu Junsheng, mettendo in imbarazzo la sua rete di protettori. «Gli interessi dei top leader si tengono reciprocamente in ostaggio», sottolinea Wen. Con la stessa logica sarà selezionata la cinquina dirigente dei prossimi dieci anni che affiancherà Xi e Li alla guida del Paese: persone caute, disposte solo a riforme davvero improrogabili. Tra loro ci sarà senz’altro Wang Qishang, il sindaco di Pechino ai tempi della Sars, considerato la mente economica più brillante della Cina, il vero interlocutore del ministero del Tesoro americano. Insieme a lui è probabile che entreranno nel club esclusivo anche Zhang Gaoli, politico di basso profilo, fedele a Hu, per anni responsabile del partito in regioni baciate dal successo economico, e Zhang Dejiang, l’uomo di Jiang Zemin che ha sostituito Bo Xilai a capo di Chongqing, un forte sostenitore delle imprese statali. L’ultima casella che sembra relativamente sicura è quella di Liu Yunshan, il cane da guardia che dovrà vegliare sulla propaganda di Stato: cresciuto politicamente nella Gioventù comunista, ha imparato i trucchi del mestiere nella Mongolia interna, una delle tre province più severamente controllate da Pechino e avrà al suo fianco un uomo in ascesa come Liu Qibao, il segretario del partito nel Sichuan. Improbabile invece è la nomina di Wang Lijun, l’autorevole governatore del Guangdong, proprio in virtù delle sue idee liberali e riformatrici. Gli altri posti sono più incerti, anche perché dipenderanno dalla decisione del Politburo di confermare un Comitato esecutivo a nove membri o ritornare a quello a sette. Tra i contendenti c’è Yu Zhengsheng, capo del Partito di Shanghai, un fedelissimo di Jiang Zemin, Li Yuanchao, già adesso uno dei più potenti politici cinesi come capo dell’organizzazione del partito, destinato a ricoprire comunque il ruolo di capo supremo del comitato centrale per la disciplina, e Liu Yandong (vedi box nella pagina a fianco) l’unica donna che potrebbe rompere il soffitto di vetro cinese.
A dispetto di ogni scelta, il presidente sarà comunque Xi Jinping, il principe rosso che nel fisico assomiglia incredibilmente a Mao. È riuscito a portare avanti l’eredità del padre, un ex fedelissimo di Mao divenuto liberale in tarda età, salendo fino allo scranno più alto del Paese. E ora, nonostante le aspettative contrarie, sono in molti a sperare che il suo recente incontro con il figlio del politico riformatore Hu Yaobang, la cui morte scatenò 23 anni fa la rivoluzione in piazza Tiananmen, possa essere preludio a qualcosa di più della semplice liberalizzazione della Borsa di Shanghai.